martedì 23 ottobre 2007

L’uva “Serpe” ed il vino Cecubo

Fonti giornalistiche di recente, hanno dato notizia di una importante iniziativa per il recupero di uno dei più antichi vitigni autoctoni del Lazio: l’uva “serpe” da cui veniva prodotto il vino Cecubo, tanto apprezzato ai tempi dei Romani.

L’azienda agricolo promotrice dell’iniziativa è la Masseria del monti del Cecubo ubicata sulla strada della Magliana che collega Itri a Sperlonga.

La Regione Lazio, prima di includerlo tra i vitigni autoctoni ammessi alla cultura, ne sta studiando i caratteri organolettici della vite che produce questa uva. L’impianto viticolo, sotto il controllo di tecnici regionali è a buon punto di realizzazione e prossima è quella della produzione e della commercializzazione del vino.

un po' di storia

Quando Appio Claudio Cieco, il costruttore dell’Appia, la Regina viarum, che collegava e collega Roma a Brindisi, dopo un agevole percorso nella pianura pontina, si imbatte nei monti che da Fondi, attraverso Itri, accarezzano il cielo fino a Formia, trovò un ostacolo impervio da superare. Ma lo accolse, a lenimento delle sue fatiche, un pregevole ventaglio di vini che, è da ritenere, trasportò a Roma come un carico più prezioso di un trofeo di guerra.
Cecubo si suppone derivi da caecus (cieco), congiunto a bibeo (bevo), o bibere (bere), vocaboli fusi insieme ad identificare il bere del cieco, cioè la bevanda preferita proprio da Appio Claudio Cieco. Plinio il Vecchio classificò prima il Cecubo e, poi, il Falerno, precisando antea coecubum, postea falernum. E la dice lunga quel postea falernum, cioè dopo il celeberrimo vino che Petronio, nella famosa cena, fece offrire da Trimalcione ai convitati, esterrefatti, con il commento: questo vino ha cento anni; esso ho vita più lunga dell’uomo. Columella, poi, nel De Agricoltura, individuò il sito di produzione del miglior vino dell’Impero sulle alture sopra la “spelunca”, oggi Sperlonga. Ed Orazio, nella seconda ode, ricorda che i vini cecubi erano nascosti, come un bene prezioso, sotto cento chiavi, ed erano superiori persino a quelli offerti negli opulenti banchetti dai Pontefici.

L’uva serpe, da cui si ricava il vino Cecubo ha la caratteristica di tramutarsi in un vino corposo, rosso, intenso, con una nota amara e dolce insieme, un vino che tinge il pavimento con macchie indelebili, come ricorda Orazio nel celebre verso, vero tinget patvimentum superbo.

Il suo anno di nascita si perde nella notte dei tempi. Il vitigno dell’uva serpe non ha al mondo riscontri che ne possano stabilire la sua origine per trasmigrazione: esso è proprio il frutto spontaneo di questa ristretta striscia di terra dei comuni di Itri e Sperlonga e, per l’alta qualità del prodotto, costituisce proprio un dono di Dio.

L’origine antichissima dell’uva serpe trova un convincente riscontro in Columella che, nel tratteggiare le varie specie di vitigni, già antichi per la sua epoca del I secolo dC., menziona l’esistenza di un’uva che dava un vino robusto e che veniva prodotta da un vitigno chiamato Dracontion, che, in greco, significa serpente. Columella, scrivendo in latino, ha fatto ricorso, per indicare questo vitigno, ad un termine in lingua greca, che era quella originaria degli antichi abitanti dell’antichissina città di Amyclae che sorgeva sul litorale tra Fondi e Sperlonga. (Virgilio ne fa risalire l’origine ai Laconi, provenienti dal Peloponneso, regione abitata dagli Spartani). Gli Amiclani piantarono sui colli di Itri la vite dell’uva serpe, anche come retaggio delle proprie credenze religiose.
I popoli dell’antichità, quando trasmigravano da un posto ad un altro, si portavano dietro quelle che erano te radici della loro civiltà, costituita dalle coltivazioni principali e dalle credenze religiose e, tra le prime, il grano e le viti. Chi si inoltra tra le balze dei Monti Cecubi scopre che addosso dei ruderi di ogni antico fabbricato, proprio in prossimità dell’ingresso principale, vi è ancora un grosso tronco di vite pluricentenaria: é la vite dell’uva serpe che ogni avo, in occasione della costruzione di un nuovo fabbricato, usava piantare, di generazione in generazione, a protezione e tutela della dimora familiare proprio in prossimità dell’uscio. E proprio al rispetto sacrale di questa millenaria tradizione contadina dobbiamo ora la conservazione dell’uva serpe.

(Tratto da un corposo studio della dott.ssa Maria Antonietta Schettino Pubblicato sulla Gazzetta degli Aurunci, Anno XV, n. 5, Maggio 2006).

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