sabato 21 agosto 2021

La Scuola Medica Salernitana

incontro di culture e condivisione di saperi fiorito sulle sponde del Mar Mediterraneo

 

 Ippocrate e Galeno discorrono di medicina Affresco

 

Come poteva il Blog non parlare del mio saggio “La Scuola Medica Salernitana, incontro di culture e condivisione di saperi  fiorito sulle sponde del Mar Mediterraneo” edito da Passerino ed. in formato e-book ma reperibile anche in cartaceo (per chi ama la lettura tradizionale) su Amazon?

 

 

 Nel saggio è descritto l’incontro che si verificò nell’Alto Medioevo tra popoli di etnie, lingue e culture diverse che vennero in contatto con traffici e scambi di ogni genere nel loro comune mare, il Mediterraneo.

Arabi, Greci, Persiani, Bizantini e Latini non frapposero tra di loro barriere o steccati ideologici di alcun tipo ma, senza preclusione alcuna, collaborarono pacificamente mettendo in comune le proprie conoscenze nel rispetto delle reciproche identità.

 Una “rivoluzione culturale” fatta di inclusione, condivisione, coinvolgimento, avvenuta nel Medioevo, un’epoca ingiustamente ritenuta buia ma  in realtà ricca di fermenti culturali, resa possibile grazie alle caratteristiche intellettuali  nel senso più ampio del termine delle varie identità.

L’incontro tra popoli mediterranei si concretizzò nella nascita della Scuola Medica Salernitana, ritenuta la prima e più ragguardevole università del Mondo occidentale e il più importante luogo dove la medicina trovò pratica applicazione; la sua leggendaria nascita, evoluzione e storia costituiscono parte del saggio.

Non si può nell’ambito di questa Istituzione sottacere l’importanza che vi rivestirono grandi personaggi:

·         Alfano I, abate di Montecassino e poi arcivescovo di Salerno,  ne fu il principale ispiratore e regista; convinto com’era dell’ unicità del sapere, si adoperò perché la cultura greca e araba potessero interagire e dar vita a nuove conoscenze;

·         Costantino l’Africano, monaco benedettino, ebbe un ruolo fondamentale nel recupero di saperi ormai ritenuti perduti; egli, grazie alle sue conoscenze  e alla traduzione di antichi manoscritti dall’arabo,  restituì al mondo occidentale i testi scientifici di Aristotele e Ippocrate, rendendoli nuovamente fruibili;

·         il filosofo Avicenna con le sue teorie  influenzò profondamente  i principi su cui fino ad allora si basavano le teorie medico- scientifiche; tale fu l’importanza della sua opera maggiore, il Canone della Medicina,  che essa costituì  per secoli  una fondamentale guida per l’arte medica  e gli fece guadagnare l’appellativo di “padre della medicina moderna”;

·         la medichessa  Trotula ebbe un ruolo di primaria importanza  al  pari di medici uomini;  la sua sapienza ebbe vasta risonanza nel mondo scientifico e la rende oggi un’ icona del movimento femminista; a lei  si devono trattati di medicina  con i quali precorse i fondamentali dell’ostetricia e della ginecologia;

·         Matteo Silvatico , botanico,  ispirandosi ai principi di Galeno,  studiò e catalogò le erbe officinali da usare a fini terapeutici  coltivandole egli stesso  nel Giardino dei Semplici, primo esempio di orto botanico universitario.

La lettura del saggio offre molti spunti di riflessione e fa man mano scoprire al lettore che parecchi concetti della medicina contemporanea furono concepiti in quell’ambito, uno per tutti la visione “olistica” dell’organismo umano, che considerava fondamentale ai fini della guarigione  la conoscenza del paziente nel sui complesso,  principio su cui si basa la  moderna psicosomatica.

Il saggio è arricchito di curiosità, leggende e storie romantiche che alleggeriscono e rendono più coinvolgente la lettura.

 


martedì 3 agosto 2021

LA PASQUA E LA CORRETTA DATAZIONE DELLA CROCIFISSIONE DI GESU’ CRISTO

 

 


                       Ruth Woroniecki – Crocifissione d Cristo

 

Anche quest’anno, così come in quello precedente, abbiamo trascorso una Pasqua diversa da quelle gioiose a cui eravamo abituati: non più le gite fuori porta sotto il sole di primavera, l'allegria delle gaie e chiassose tavolate con parenti ed amici, solo tristezza e solitudine; una vita sospesa in un eterno presente senza la possibilità di guardare con fiducia al futuro.

Chi l'avrebbe detto che questa pandemia da Covid-19 sarebbe durata così a lungo! L’anno scorso ci eravamo illusi che con l’arrivo della bella stagione avremmo potuto superare il momento critico. L’arrivo dei mesi estivi ci aveva, infatti, ridato fiato e fiducia. Poi però le cose sono andate di nuovo male e siamo ripiombati in questa situazione di crisi sanitaria, economica e, non meno grave, psicologica.

Resta solo la speranza che questo difficile periodo che stiamo vivendo diventi solo un brutto ricordo con il ritorno alla normalità  e che la Pasqua, simbolo per eccellenza del rinnovamento e della rinascita possa  tornare ad essere occasione di gioia.

Ma cos’è la Pasqua?

E’ la commemorazione della resurrezione di Cristo dopo la sua morte per crocifissione che attualmente viene festeggiata dalle chiese cristiane nella domenica successiva al plenilunio che segue l’equinozio di primavera.

A stabilirne la data fu il primo concilio ecumenico tenutosi a Nicea nel 325 d.C., presieduto da Costantino che, con l’intendo di raggiungere un accordo in sede dogmatica, viste le continue controversie, in particolare quella ariana, che minavano l’unità religiosa della Chiesa, individuò la data della ricorrenza pasquale in maniera autonoma da quella ebraica. La Pasqua cristiana, sebbene tragga origine da essa, ha significati simbolici e valori spirituali del tutto diversi in quanto la Pèsach o Pesah ricorda la liberazione del popolo ebraico dall'Egitto e il suo esodo verso la Terra Promessa.

Per tradizione la Pasqua ebraica coincideva con l’equinozio di primavera e veniva celebrata il 15 del mese di Nisan, primo mese dell’anno secondo il calendario ebraico,  e  giorno del plenilunio. Per il calendario ebraico, infatti, i mesi dell’anno avevano inizio con la fase di Luna nuova e pertanto il 15° giorno del mese coincideva con il plenilunio. Nisan, inoltre, secondo l’attuale calendario corrispondeva al mese di Marzo o di Aprile a secondo della fase lunare.

Ma come è determinata la data della Pasqua cristiana?

Come detto la Pasqua cade sempre nella giornata della domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera (21 marzo). Quindi, per determinare la data in cui cade la Pasqua, occorre considerare la periodicità delle fasi lunari e la coincidenza dell’equinozio con la luna piena; di conseguenza, il periodo in cui può collocarsi la sua data va dal 22 marzo al 25 aprile. Si parla di Pasqua bassa se questa cade in prossimità del 22 marzo e di Pasqua alta se cade in prossimità del 25 aprile.

Per quanto riguarda la precisa datazione in cui si svolsero i drammatici fatti della morte e resurrezione del Cristo, sono state nel tempo avanzate diverse ipotesi, basate su studi sia testuali che astronomici e perfino geologicici, pubblicati su riviste di settore, una per tutte quella sulla rivista internazionale Geology Review in cui è presente uno studio del geologo Jefferson Williams della società di consulenza nordamericana Supersonic Geophysical sui movimenti tellurici nella zona del Mar Morto, per indagare sul devastante terremoto avvenuto in concomitanza con la crocifissione e di cui parla Matteo nel suo Vangelo.

Sul tema così dibattuto ho letto di recente anche un interessante articolo riportato ora sui media, ma pubblicato sulla rivista internazionale di scienza Nature del 2 dicembre 1983 da John Humphreys e W.G.Waddington, illustri scienziati e professori in università britanniche, ambedue cultori di sacre scritture, ed in particolare della Bibbia, che mi è sembrato ben argomentato e supportato da dati e notizie precise. Gli studiosi di cui sopra, con l’ausilio di potenti computer, calcoli astronomici e riferimenti biblici, sono riusciti a ricostruire il calendario ebraico nel I° secolo d.C. e ad individuare la data della Crocifissione di Cristo nel venerdì 3 aprile dell’anno 33 d.C. all’ora “nona” ossia alle ore 15

Alla base dei calcoli fatti da Humphreys e Waddington  ci sono gli Annales di Tacito, dove si legge che la Crocifissione avvenne nel periodo in cui Ponzio Pilato era procuratore della Giudea e quindi tra il 26 e il 36 d.C., nonché le citazioni dei Vangeli di Giovanni e di Marco che si limitano a dire che la morte di Gesù avvenne nel venerdì precedente la Pasqua ebraica e quindi il 14 del mese di Nisan.

Proseguendo nella loro ricerca gli studiosi, sulla base di calcoli molto complessi, sono riusciti a risalire ai giorni di novilunio successivi all’equinozio di primavera per tutti gli anni dal 26 al 36 d.C  e di conseguenza hanno stabilito che il 14 di Nisan (come detto giorno antecedente la Pasqua ebraica) ricorreva nei più disparati giorni della settimana, trovarono però che solo il 7 aprile del 30 d.C. e 3 aprile del 33 d.C. il 14 aprile era venerdì.

 Ma in quale delle due date si verificò la crocifissione di Gesù?

La missione di stabilire quale delle due date fosse sembrava impossibile, ma gli studiosi britannici non si persero d’animo e, attingendo a piene mani alle informazioni contenute nelle sacre scritture e grazie alla potenza dei loro calcolatori astronomici, risolsero l’enigma.

Stando a quanto si legge nel Vangelo di Luca, nel giorno della Crocifissione “per tre ore, da mezzogiorno alle tre del pomeriggio, il buio cadde sulla terra” e quindi che in uno dei giorni in causa poteva essersi verificato un’ eclissi di sole totale. Ma purtroppo nessuna eclissi di sole si era verificata e tantomeno avrebbe potuto verificarsi dato che durante il plenilunio il nostro satellite si trova in opposizione al Sole e di conseguenza non è in grado di oscurarlo.

Ma allora di cosa si trattava?

Negli Atti degli Apostoli i nostri scienziati trovarono il richiamo di Pietro ad una profezia di Gioele in cui si afferma che “la Luna sarà mutata in sangue prima che avvenga il glorioso giorno del Signore”. Era questo un chiaro segno che il fenomeno astronomico verificatosi alla Crocifissione di Gesù non fosse un eclisse di Sole, bensì di Luna, anche perché l’accostamento Luna e sangue era spesso utilizzata per indicare la colorazione rosso-rame dell’astro quando, in fase di eclisse totale, va immergendosi nel cono d’ombra della Terra. 

 


 Le Lune di sangue sono state a lungo associate alle profezie della fine del mondo e ad esse erano attribuiti segni di imminenti catastrofi.

Era chiaro allora che si parlava di un eclisse di Luna e non di Sole!

I nostri scienziati Humphreys e Waddington tornarono alla carica andando alla ricerca di eventuali eclissi totali di Luna visibili da Gerusalemme tra il 26 e il 36 d.C. I calcoli fornirono risultati stupefacenti; rivelarono infatti che effettivamente un’eclisse di Luna visibile da Gerusalemme si verificò realmente il 3 aprile del 33 d.C. all’ora nona e cioè alle 15 del pomeriggio.

 

 

 

 

domenica 2 maggio 2021

“La Peste” di Albert Camus


   un capolavoro della letteratura contemporanea che narra una storia che ha molte analogie con quanto accade oggi nel mondo
 
 

 
 
 Ho da poco finito di leggere il romanzo di Albert Camus “La Peste”.  
Ne avevo sentito parlare ma del romanzo avevo letto solo qualche recensione. La lettura mi ha coinvolto e molto impressionato per le tante analogie, coincidenze ma anche discordanze che ho trovato con la grave epidemia da corona virus che va diffondendosi in tutto il mondo - un virus sconosciuto e subdolo che si propaga facilmente e sembra non arrestarsi, lasciando al suo passaggio molte vittime.
La lettura del romanzo lascia nel lettore un forte sentimento di angoscia e frustrazione per gli argomenti trattati, a volta molto crudi e di forte impatto emotivo, che fanno riflettere sulla caducità della vita umana, esposta da un momento all’altro a mali sconosciuti.  
L’autore racconta di un’epidemia di peste abbattutasi su Orano, una cittadina costiera dell’Algeria; descrive l’incredulità, la preoccupazione, il panico e successivamente la rassegnazione degli abitanti per un inatteso catastrofico evento che ha trovato le autorità sanitarie impreparate a gestirlo.
Attraverso il diario del dottor Rieux, eroico medico coinvolto in prima persona nell’assistenza dei tanti malati, l’autore fa rivivere i drammatici momenti in cui il flagello della peste si abbatte e travolge migliaia di vite umane. Descrive la drammatica evoluzione dell’epidemia, dal primo segno premonitore della diffusione del virus, la moria dei ratti, ignari diffusori del contagio, fino al momento in cui il male viene sconfitto non prima però di aver causato migliaia di morti, senza distinzione di età, sesso e condizione sociale.
Proseguendo nella lettura del libro si assiste all’autoregolamentazione dei comportamenti della gente impaurita ed alla sua altalenante emotività, al susseguirsi incessante dei bollettini sanitari, diramati con cadenza giornaliera, delle ordinanze prefettizie di chiusura e distanziamento sociale, della descrizione delle inquietudini per l’incertezza della durata dell’epidemia. C’è anche la rappresentazione dei gesti di solidarietà dei volontari del soccorso e l’eroico sfinimento dei medici. Si assiste anche alla tristezza della sofferenza e morte dei bambini e dei funerali negati.
Il protagonista del romanzo, il medico Rieux, nel suo diario, annota giorno per giorno la cronaca dell’epidemia: i sintomi, la lotta contro il male, la disperata ricerca di un antidoto e le sofferenze della gente comune. Altri personaggi, di cui Camus descrive la personalità, affiancano e sostengono Rieux nella lotta contro il male: Rambert, il giornalista, che, con spirito di sacrificio ed altruismo, rinuncia ad allontanarsi dalla città per raggiungere la donna amata; il sacerdote Paneloux che vede nell’epidemia un castigo di Dio e cerca di darne una spiegazione metafisica; Arrou, l’intellettuale, che inizialmente assiste passivamente agli avvenimenti che sembra non accettare, ma che in seguito si impegna volontariamente nella dura battaglia; Grand, l’impiegato comunale, che tiene sotto controllo la contabilità dei morti, dei contagiati, dei guariti; infine Cottard che vive di espedienti e, nel torbido, prospera lucrando con la borsa nera ma temendo che presto si possa tornare alla normalità.
Finalmente l’epidemia ha termine, lasciando dietro di sé una scia di morti, di vite spezzate, le macerie di una città sconvolta nei rapporti umani dei suoi abitanti.
Differenti sono gli atteggiamenti dei personaggi della storia di fronte all’epidemia. Paneloux, colpito anche’egli dalla peste, non cerca aiuto nella scienza, ma aspetta la  triste sorte affidandosi completamente a Dio. Tarrou, dopo aver militato in un partito contro la pena di morte, lascia l’azione politica per evitare di contagiarsi; egli infatti sostiene che la peste è nella politica, nelle logiche totalitarie, nella menzogna e nell’orgoglio. Rieux che compie atti di dedizione verso il prossimo sofferente, mettendo a frutto le proprie conoscenze, già maturate in circostanze analoghe, per combattere l’epidemia.
Il romanzo ha termine con una scena memorabile ed emblematica che invita il lettore alla riflessione. Rieux  ascolta le grida di esultanza della gente che si leva dalla città, ormai liberata dal flagello della peste, ed osserva in cuor suo che quell’esultanza è destinata ad essere sempre minacciata. Si rende conto, infatti, che la folla in festa ignora, che “ il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice”.
Con queste parole, pronunciate dal protagonista del romanzo, Camus vuole ammonirci contro la tentazione di pensare di aver realizzato una società perfetta, quella in cui il male sia definitivamente estirpato, raccomandando di essere sempre vigili e non abbassare mai la guardia.

giovedì 4 marzo 2021

Una storia di mare


Una storia di Mare

Antonio dalla banchina del molo Santa Maria indirizzò a Giovanni il solito saluto sonoro ed allegro: - Signor capitano … -

All'amico, con un pizzico di celia, esprimeva in quel modo tutto l'affetto e la stima che provava per lui. Considerava Giovanni un personaggio degno di considerazione e rispetto per la sua fama di lupo di mare che si era conquistato in anni ed anni di navigazione per tutti mari del mondo.

- Uhè, a bellezza di don Antonio … -

Giovanni, dopo aver piegato in fretta ed alla buona le carte nautiche, scese dalla scaletta del rimorchiatore con le braccia tese in segno di cordialità, come si conviene ad un amico di vecchia data.

- Che dici? Che dici? … - Chiese, invitando l'amico a proseguire la conversazione nel vicino bar di Piazza Traniello dove erano soliti incontrarsi a quell'ora per il consueto aperitivo.

Con il "Capitano", Antonio aveva diviso gli anni migliori della sua giovinezza. Ambedue di Gaeta, cresciuti insieme tra i vicoli di Via Indipendenza, avevano studiato all'Istituto Nautico, erano partiti insieme per i primi imbarchi da allievi ufficiali sulle navi della marina mercantile, agli inizi degli anni cinquanta. Poi, dopo anni di navigazione, Giovanni era diventato capitano di coperta ed Antonio direttore di macchine.

Ne avevano visto delle belle durante i lunghi imbarchi che a quei tempi duravano mesi e mesi, a volta anche interi anni. Trascorrevano tanto tempo lontano da casa, soli in mezzo al mare. Un mare sconfinato che si perdeva all'orizzonte fin dove iniziava il cielo, in quella linea lunga e piatta che sembrava rappresentare il loro destino.

Quando poi ti assaliva la nostalgia della famiglia, non c'era neanche il conforto di un telefono a portata di mano per chiamare casa. C'erano, infatti, difficoltà per telefonare bisognava prenotarsi, fare da ponte con la radio di bordo ma anche così non si riusciva ad avere una comunicazione soddisfacente.

Non restava che il lavoro. Tuffarcisi dentro e non pensare!

I turni di guardia erano lunghi e duravano ore interminabili nelle quali bisognava tenere costantemente sotto controllo i motori navali e gli strumenti di bordo che segnavano la rotta, ed essere pronti a fronteggiare qualsiasi evenienza.

Non c'erano domeniche o feste comandate, solo lavoro, lavoro e basta, con qualsiasi tempo, tra il caldo dei mari del sud e le tempeste di neve e ghiaccio quando si oltrepassava Capo Sumbrgh, ad ovest delle isole Shetland, porta dell'Oceano Atlantico.

Poi lentamente ci si abituava a quella vita, un po’ per rassegnazione e un po’ per necessità. Le paghe erano ancora buone e con quella vita, trascorsa sempre in navigazione, si riusciva a mettere da parte, tolte le poche spese vive, quasi tutto lo stipendio.

Alla fine il mare finiva per avere il sopravvento, ti penetrava dentro, si mescolava con il sangue nelle vene e diventava parte di te stesso. Era come l'ossigeno che ti entra nei polmoni e ti fa respirare. Ed ancora oggi, dopo anni di mare, solo mare, nient'altro che mare, sentivano il bisogno di guardarlo, il mare, di respirarlo, di ascoltarlo, di carezzarlo con lo sguardo.

* * *

Ormai Antonio e Giovanni erano "ufficialmente" in pensione da alcuni anni, ma alla vita da pensionati non erano ancora riusciti ad abituarsi del tutto.

Antonio, dopo qualche settimana di ozio forzato, non gliel'aveva fatta più, non aveva resistito oltre, lontano dal suo mare azzurro. Una bella mattina si era recato alla darsena di Montesecco da un amico pescatore che gli aveva mostrato alcune barche in vendita. La sua scelta era caduta su un gozzo di tre metri e mezzo, tutto in legno, con motore entrobordo da venticinque cavalli ed un piccolo cabinato.

Non era proprio la barca dei suoi sogni, ma era più che sufficiente per quello che intendeva farci. Con quella barca avrebbe affrontato con sicurezza quello specchio di mare. Lo avrebbe percorso in lungo ed in largo senza mai allontanarsi più di un paio di miglia dalla costa.

Impiegò più di un mese a sistemare la barca. Da un suo amico calatafaio fece assestare alcune assi dello scafo, fece rettificare il motore e rifare l'impianto elettrico. Poi con una verniciata generale, rese il suo gozzo pronto a competere con barche di sicuro più costose e potenti.

Antonio aveva anche acquistato una rete da strascico, uno sciabachiello, come lo chiamavano i pescatori del luogo, che avrebbe usato con gli amici nelle uscite di pesca.

Con la sua barca Antonio era felice, anche se doveva svegliarsi all'alba. Lo faceva con compiaciuta rassegnazione, come fosse per un turno di guardia quando era imbarcato. In fretta si recava alla darsena, saltava a bordo del suo gozzo, metteva in moto e salpava l'ancora per la sua traversata tra un capo e l'altro del golfo.

Ora, in pace con se stesso, aveva vinto la nostalgia del mare. Il sussulto ritmico dei pistoni del suo entrobordo gli ricordava il frastuono delle turbine della sua nave. Gli sembrava così di essere di nuovo in mezzo all'oceano.

Come Antonio anche Giovanni non si era voluto adattare alla vita di pensionato ed aveva cercato subito un'altra occupazione che l'avrebbe salvato dalla monotonia del non far nulla.

Ne parlò subito col suo amico Giacinto, ammiraglio della marina militare, che era stato per anni comandante del porto di Gaeta prima di andare in pensione. Gli aveva fatto presente che c'era tanto bisogno di capitani di lungo corso, esperti come lui, che facessero i piloti, che guidassero le navi nel porto, dove, con l'intensificarsi dell'attività della locale raffineria, c'era un via vai di petroliere che dovevano attraccare al molo di Porto Salvo per scaricare il greggio. Il lavoro era poco impegnativo e ben remunerato, ma occorreva essere sempre disponibili ad intervenire. C'era da raggiungere la nave a largo, con la motovedetta della capitaneria di porto, arrampicarsi a bordo con la biscaglina e traghettarla con l'aiuto dei rimorchiatori, in porto.

Giovanni lo aveva ascoltato con entusiasmo. Riteneva che quello fosse proprio il lavoro che faceva per lui. Chi meglio di lui, infatti, avrebbe saputo leggere le carte nautiche, chi meglio di lui avrebbe saputo tracciare quella piccola rotta per condurre in porto una nave.

Si convinceva sempre di più, che quello era proprio il lavoro che lo avrebbe fatto sentire ancora attivo e l'avrebbe tenuto a contatto con il mare.

Si mise subito in moto. Prese contatti con gli uffici del Compartimento Marittimo di Napoli e da loro ricevette tutte le informazioni possibili.

Nonostante fosse in possesso di patente nautica ed avesse anni ed anni di navigazione alle spalle, dovette ugualmente frequentare un lungo addestramento e sostenere un esame finale. Poi era stato costretto dalla burocrazia l'aveva a passare da un ufficio all'altro per certificati ed attestazioni. Alla fine quando tutto era a posto aveva ottenuto l'iscrizione nell'apposito elenco dei piloti portuali.

Giovanni aveva iniziato con entusiasmo il suo nuovo lavoro di pilota. Di navi ora ne guidava in porto tante. Perfino tre alla settimana ed a qualsiasi ora.

Con il suo berretto azzurro da nocchiero, si ergeva ritto a prua, scrutando oltre i flutti che si frangevano sullo scafo. Chi lo scorgeva da lontano aveva l'impressione che conducesse per mano la nave che gli era stata affidata, con tenerezza, come se stesse accompagnando un bimbo a scuola.

* * *

L'ombra che il fabbricato proiettava sull'asfalto e la leggera brezza che si era levata dal mare recavano sollievo in quella giornata torrida di fine luglio ai due capitani che sedevano uno di fronte all'altro, attorno ad un tavolino del bar Desanti di Piazza Traniello..

Il ragazzo del bar si avvicinò con il vassoio in mano e posò sul tavolo due variopinti aperitivi con tanti cubetti di ghiaccio. Giovanni afferrò il bicchiere e dopo aver pronunziato la formula d'obbligo: - A' salute, Antò -, trangugiò voluttuosamente il primo sorso della bibita. Antonio lo seguì a ruota, ma prima sgranocchiò una nocciolina.

- Ah! … dimenticavo - fece il ragazzo del bar, - devo consegnarvi una lettera che ha lasciato per voi un marinaio questa mattina presto. Ha chiesto di voi …, noi gli abbiamo detto che vi avrebbe trovato sicuramente a quest'ora, ma ha detto che andava di fretta. Vi ha lasciato questa…

Nel dire ciò sfilò dalla tasca della giacca una busta piegata in due che lasciò sul tavolo.

Giovanni ed Antonio ora morivano dalla curiosità di sapere cosa contenesse quella busta. Di sicuro immaginavano che si trattasse di qualcosa che avesse a che fare con gli anni di navigazione trascorsi insieme.

Antonio afferrò la busta con evidente impazienza, ed estrasse il biglietto. Poi con voce alta, lesse:

"Dear captains, mia nave fatto scalo a Napoli per un solo giorno. Io venuto a Gaeta per vedere e ringraziare voi per quanto fatto a me in quella brutta avventura in mare.

Non posso restare, devo partire.

Bye, John Smith ".

E' lui! - Esclamò Antonio visibilmente emozionato. - E' vivo, ringraziando il Cielo -.

- Ma chi …? proprio John?- Chiese Giovanni schiarendosi la voce per un improvviso groppo di commozione.

Fu un momento indescrivibile! In quell'attimo la sorpresa per l'inaspettata ricomparsa di John si univa al ricordo di quei terribili momenti. La loro mente vagava nel tempo, a ritroso, a tanti anni fa. Erano di nuovo nell'oceano in compagnia di quelle immagini ormai indelebili nella loro memoria.

C'era tempesta, quella notte di novembre. In quel raggio di mare a largo di Capo di buona Speranza, in Sudafrica. Sembrava che le forze della natura avessero prescelto quell'angolo di mondo per sfidarsi in un singolare duello fatto di tuoni, fulmini, raffiche di vento ed onde impetuose e terrificanti, talmente alte da superare per diversi metri le murate della nave. Terrificante anche il beccheggio della prua che ritmicamente s’inabissava, scompariva sott'acqua, riemergeva e con fragore s'impennava puntando al cielo.

Il mare forza 9, la corrente che tirava a dritta, rendevano quasi impossibile tener ferma la rotta. Occorreva spingere le macchine a pieno regime, contrastare la corrente con il timone per non andare alla deriva, ed anche così si rischiavano cedimenti alla precaria struttura di quella vecchia carretta rimessa in sesto alla meglio nei bacini di carenaggio di Napoli.

Giovanni sapeva che era necessario correre quei rischi se voleva venir fuori da quella tempesta che insidiava la vita del suo equipaggio.

Nella torretta di comando ed in sala macchine era tutto un frenetico via vai senza tregua. Dai boccaporti, nelle stive, venivano giù agli uomini comandi, urla, imprecazioni.

Antonio si faceva in quattro, correva su e giù da un pannello all'altro, da un manometro all'altro, da un comando all'altro per spingere le macchine al limite del sostenibile e governare quella situazione.

Ad un tratto dalla sala caldaie si avvertì una forte esplosione.

Un denso fumo cominciò a fuoriuscire dalla sala macchine ed il fuoco con il suo tristo sibilo, cominciò a proiettare bagliori tutt'intorno.

Era il finimondo, non bastavano le condizioni disperate provocate dalla tempesta, ora anche un incidente!

In un attimo il singhiozzo dalla sirena ad intervalli regolari, avvisò tutti dello stato di allarme incendio e tutto l'equipaggio cominciò a radunarsi precipitosamente sottocoperta armato di manichette ed estintori. Giovanni lasciò il comando al primo ufficiale e si precipitò sul luogo dell'esplosione.

Ci volle poco per capire cosa fosse avvenuto. La valvola della prima delle tre caldaie era saltata per l'eccessiva pressione cui le turbine erano state sottoposte, il fuoco ora stava propagandosi dappertutto.

Con le pompe i marinai iniziarono a circoscrivere le fiamme, ma il fumo denso rendeva difficile qualsiasi intervento.

Dal fondo del passaggio che dava alle caldaie, lacero e annerito dalla fuliggine, apparve Antonio che sorreggeva il corpo apparentemente senza vita del marinaio John Smith, colpito in pieno viso dall'esplosione, privo di sensi, con ustioni su tutto il corpo, vistosamente sanguinante. Antonio l'adagiò, appena fuori, su una delle scialuppe di bordo e cominciò a rianimarlo come meglio poteva. Nulla da fare. il cuore cominciava a cedere, il polso era sempre più flebile. Antonio, riverso sul torace del malcapitato, in equilibrio instabile, sballottato di qua e di la dal convulso rullio della nave, cominciò a praticare il massaggio cardiaco.

Erano momenti drammatici ma non bisognava perdere la calma, occorreva fare qualcosa e subito. Giovanni lanciò un urlo al marconista ed insieme, frettolosamente risalirono in sala comando e con la radio di bordo iniziarono a collegarsi con la stazione più vicina. Lanciarono il "May day" più volte sperando che con quella tempesta che infuriava qualcuno potesse ascoltarli.

Niente! Non c'era nessuno in quel maledetto tratto di mare, e poi quella tempesta rendeva ancora più difficile attivare un collegamento con chicchessia.

Un ennesimo tentativo andò finalmente a segno e una voce gracchiante rispose in una lingua strana, un misto di inglese e di spagnolo. Era la guardia costiera di Cape Town..

Giovanni con voce concitata rappresentò la situazione di emergenza in cui si trovavano: un ferito grave, un'avaria alle macchine, una tempesta mai vista prima. Un inferno, insomma!

Il comandante della Guardia costiera annunciò che con quel mare non poteva far null’altro che allertare tutte le strutture di soccorso.

Giovanni era disperato, non gli importava nulla del pericolo che correva l'equipaggio ed anche la sua vita, non gli importava nulla di quella vecchia carretta che forse non avrebbe mai riportato in porto, ma quel povero marinaio bisognava salvarlo, bisognava fare qualcosa per lui a costo di tutto. Riprese il microfono e chiese almeno di parlare con un medico. Li supplicò, per l'amore di Dio.

Il collegamento fu laborioso ma dopo alcuni, interminabili minuti lo sentirono in linea. Gli spiegò cosa era successo e quali fossero ora le condizioni di John. Gli disse che aveva perso molto sangue, che era ustionato e privo di conoscenza.

Il medico ordinò di fare al più presto e con ogni mezzo una trasfusione di sangue al ferito, ed aggiunse che se non fosse stato trasportato urgentemente in ospedale, sarebbe stato spacciato.

Una trasfusione? Ma, come fare?

Giovanni scese in infermeria, lesse il manuale di primo soccorso e frugò nella cassetta dei medicinali. Trovò quello che poteva fare al caso e si portò sul luogo dell'incidente dove trovò, per fortuna, Theodor, un marinaio greco che a terra aveva per anni fatto l'infermiere.

Per la trasfusione Antonio si offerse volontario - sapeva di avere lo stesso gruppo sanguigno di John, si fece avanti e così fu tentata una trasfusione braccio a braccio.

Che scena sublime! Chi poteva resistere all'emozione di quel momento! Tutti si prodigavano con la generosità di donare qualcosa di sé per salvare la vita di un compagno più sfortunato. Ed in quel momento poi in cui più forte era la consapevolezza del pericolo che correvano le loro vite. Rischiare la propria per soccorrere John che senza l'aiuto di tutti non ce l'avrebbe fatta. Ci sarebbe rimasto in quel maledetto tratto di mare. L'oceano sarebbe stato la sua tomba!

Il tempo ora passava in fretta ma la tempesta non accennava a placarsi. Ad un tratto tutti furono scossi dai bagliori dei riflettori e dallo sbattere delle pale di un'elica che veniva giù dal cielo. Un miracolo! Un elicottero sorvolava la nave e volteggiando si calava sempre di più fino a sfiorare la coperta.

Un megafono impartì dall'alto le istruzioni ai marinai che, impazziti dalla gioia, avevano già allestito con degli assi e del cordame una barella di fortuna, su cui avevano adagiato John.

L'elicottero fu di nuovo sopra di loro, furono calati tre robusti cavi di acciaio e venne issato a bordo il ferito. Poi tutti scomparvero nella tempesta.

I compagni lo seguirono con lo sguardo ma nel loro animo c’era una preoccupazione che li attanagliava: in quelle condizioni quale speranza potevano nutrire di rivedere un giorno l'amico ferito? Quale speranza di uscire indenni da quell'inferno che si era abbattuto sulle loro teste?

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Erano passati tanti anni da allora, ma quel ricordo era rimasto vivo nel cuore di Antonio e Giovanni, unitamente alla speranza di rivedere un giorno John, ed ora quel biglietto sul tavolo del bar Desanti era la prova che quella brutta avventura aveva avuto un felice epilogo.

Antonio e Giovanni, commossi fino al midollo si alzarono dal tavolo del bar ed istintivamente si avviarono in direzione del mare. Verso quel mare, unico, grande protagonista della loro esistenza.

di Giuseppe Ferrara

 

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