lunedì 17 dicembre 2007

Buon Natale




















BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO

a tutti gli amici del mio Blog, sperando di poter con loro continuare
un sereno e proficuo dialogo, con scambi di opinioni basate su ideali
e valori condivisi.
Pino Ferrara

http://pinoferrara.blogspot.com

pinoferrara@gmail.com




giovedì 29 novembre 2007

Difendiamo i galli

Difendiamo i Galli

Leggo sulla stampa quotidiana una notizia a dir poco paradossale. C’é qualcuno che si lamenta del canto di un gallo, con tanta forza da rivolgersi addirittura alla giustizia. Forse in val Venosta la quiete è tale che anche un semplice volatile può turbarla. Mi chiedo, però, quale pena dovrebbe essere riservata a chi costantemente sottopone ad un disumano logorio. i timpani di chi vive nelle nostre città affollate. Rombi di motori impazziti, schiamazzi notturni, altoparlanti tenuti a volumi talmente alti da impazzire. Ben venga allora il canto del gallo a svegliarci all’alba!.

BOLZANO - E' stato 'condannato' un gallo, reo di disturbare il sonno dei vicini con il suo canto all'alba. Il suo padrone dovra' pagare 200 euro per il disturbo della quiete pubblica. L'episodio e' accaduto a Malles, un paesino di montagna della val Venosta, nel Meranese. A denunciare gli strepiti antelucani del gallo era stata una donna che abita a poca distanza dal pollaio. Davanti al giudice, il proprietario dell'animale si e' giustificato affermando che di galli ne aveva cinque e di averli ridotti ad uno solo per le rimostranze della vicina di casa. Ma almeno un gallo - ha sostenuto - e' necessario per la sopravvivenza di un pollaio. Il giudice, pero', non gli ha dato retta e con un decreto penale lo ha condannato a pagare 200 euro. Con il sostegno economico dell'associazione degli agricoltori Bauerbunnd, ora il proprietario del pollaio ha annunciato che ricorrera' in appello. (ANSA)

martedì 27 novembre 2007

Una meteora d'agosto



Irrompe la notte

contesa

da un lento imbrunire

alla tristezza

d’un sogno svanito.

Stregato

da questo cielo d’agosto

naufrago

in questo mare di silenzio

cercando invano

il principio delle cose

tra leggi immutabili

dell’universo.

Il guizzo

d’una meteora

che fugge lontano

trascina una speranza

tra l’immota luminosità

di questa quiete siderale

di Pino Ferrara agosto 1999

La Scuola Medica Salernitana


Un perfetto stile di vita è indicato nei precetti della Scuola Medica Salernitana una delle più importanti istituzioni scientifica – formativa d’Europa nell’Alto Medio evo che nata nei monasteri benedettini, perché ispirata dalla famosa Regula monacorum, ebbe fama e splendore per opera di Federico II.

I precetti per una vita serena e si ricavano dal famoso Regimen sanitatis salernitanum, poema in esametri tradotto poi da Pieto Magenta nel 1878, che costituiva la sintesi dell’insegnamento della Scuola e di alcune fondamentali norme igieniche cui i medici continuarono a far riferimento per lungo tempo.

Secondo la leggenda, Roberto duca di Normandia, uno dei figli di Guglielmo il Conquistatore e destinato al trono di costui, reduce dalla Terrasanta nel 1.100, tormentato da una brutta ferita al braccio, sulla via del ritorno sostò a Salerno dove ricevette le cure dei più eminenti medici locali.

Roberto guarì completamente della fastidiosa ferita e volle che i precetti della Scuola Medica Salernitana fossero trascritti nel Regimen sanitatis salernitanum.


Questo si legge nel capitolo “Dei rimedi generali”:


Questo scrisse al re anglicano

L’Ateneo Salernitano:

se dai mali vuoi guardarti,

se vuoi sano ognor serbarti,

le rie cure da te scaccia:

di fermar l’ira procaccia,

sii nel ber, nel mangiar parco:

quando al cibo hai chiuso il varco,

lascia il desco e il corpo avviva:

del meriggio il sonno schiva:

mai non stringere a fatica

l’intestin né la vescica.

Tutto ciò se ben mantieni,

dì vivrai lunghi e sereni.

Se non hai medici appresso,

farai medici a te stesso

questi tre: mente ognor lieta,

dolce requie e sobria dieta.

.............................

Son le cene sontuose

allo stomaco dannose.

perché il sonno ti sia lieve,

la tua cena esser vuol lieve.

..................................

Tu a mangiar non sii mai tratto,

se non hai stomaco affatto

vuoto e libero dai pasti,

donde innanzi lo aggravasti.

Di ciò avrai nell’appetito

Segno certo e non mentito,

chè le fauci ognor discreta

son misura della dieta.



Per saperne di più clicca qui


Ho consultato: Medicina Medioevale – UTET – a cura di Luigi Firpo; La Scuola Medica Salernitana – Sovraintendenza ai beni artistici di Salerno – a cura di Maria Pasca

mercoledì 14 novembre 2007

Capri La lucertola azzurra

La lucertola azzurra di Capri


Ammiravo estatico l’imponenza dell’Arco naturale durante la mia breve permanenza a Capri (3 novembre scorso), quando ho scorto tra gli anfratti della roccia un lucertola strana, mai vista prima. Era diversa dalle altre: il corpo tozzo, il dorso con riflessi azzurrognoli. Spinto dalla curiosità ho appreso che la tale lucertola faceva parte della fauna tipica isolana. Era la "lucertola azzurra".

La Lucertola Azzurra (Podarcis sicula coerulea) appartiene alla breve lista di rettili che popolano l'isola di Capri. Essa ha la caratteristica singolare di avere le squame di colore azzurro come il mare ed il cielo di Capri e vive prevalentemente sui Faraglioni. È un caso di mimetismo ed evidentemente questa colorazione le conferisce una scarsa appetibilità o la rende meno visibile ai predatori. Studi zoologici hanno dimostrato che la lucertola azzurra è identica, tranne che per il colore, alla lucertola verde, Podarcis sicula, che vive sul resto dell'isola.

"Le evoluzioni che conducono alla biodiversità, trovano nelle isole, proprio a causa delle loro ridotte dimensioni un ambiente ideale. Esse possono considerarsi una sorta di laboratori naturale, dove riescono a sopravvivere solo poche specie dove lo stare soli favorisce la riproduzione e la creazione di nuove specie .

Tra i Vertebrati delle isole che si affacciano sul mediterraneo, i Rettili sono quelli che mostrano un alto grado di endemicità ed in particolare quelli appartenenti alla famiglia dei Lacertidae, genere Podarcis; la lucertola campestre, Podarcis sicula, è diffusa dalle isole del Tirreno all'Appennino e dall'Istria al Mare di Marmara.

La Podarcis sicula coerulea (lucertola azzurra), ha una particolare colorazione azzurra della gola, del ventre, dei fianchi, del sottocoda e dalla pigmentazione nerastra del dorso, ha una corporatura elegante, capo ben distinto, lingua piatta bifida e retrattile, occhi muniti di palpebre mobili con pupille rotonde. Di indole vivace, i maschi adulti sono animali territoriali ed in modo particolare durante il periodo degli accoppiamenti sono soliti azzuffarsi, anche se generalmente questi combattimenti sono ritualizzati; l'alimentazione è essenzialmente insettivora. Il melanismo, il fenomeno che consiste nell'inscurimento del dorso e delle parti ventrali, facilita la termoregolazione, infatti i Rettili sono definiti animali a sangue freddo e di conseguenza sono operosi solo quando le condizioni termiche ambientali sono tali che il corpo raggiunga una temperatura adeguata allo svolgimento delle funzioni vitali. Secondo alcuni naturalisti i colori tendenti allo scuro dei sottoventre assorbirebbero meglio il calore, permettendo alla Podarcis sicula coerulea, di cominciare a cacciare prima delle lucertole dalla tipica colorazione più chiara, favorendo, in questo modo, anche le funzioni riproduttive".

(le ricerche sono state effettuate sul materiale esistente sui siti http://www.capritourism.com/it/home e http://guide.dada.net/campania_i/interventi/2007/03/288941.shtml , la foto in basso è mia)


venerdì 9 novembre 2007

Cellulari


C E L L U L A R I


(racconto di Pino Ferrara, 9/2001)

Ai miei tempi il telefono era un oggetto nero di bachelite - collegato al muro tramite un cavo, con un corpo centrale, un disco combinatore con dieci fori numerati ed una cornetta posata su di una forcella che fungeva da interruttore - cui era riservato un posto di rilievo nell'arredamento.

Negli anni cinquanta si era diffuso a macchia d'olio nelle case degli italiani. e si usava prevalentemente la domenica per mettersi in contatto con i parenti lontani, attraverso il "centralino" dove cortesi signorine collegavano il chiamante e dopo tre minuti, con fare suadente proponevano: "Raddoppia"? per accertarsi se si avesse l'intenzione di continuare o salutare.

Il telefono era uno strumento collettivo, familiare. Le telefonate erano corali. Si telefonava per sentire tutti i componenti della famiglia, per avere loro notizie, per sentirsi loro vicini. Poi si passava il ricevitore a chi ti stava vicino perché anche egli salutasse e desse notizie di sè.

Adesso il vecchio, caro telefono sta per andare in pensione. Come tante altre cose anch'esso è stato sorpassato dagli strumenti di questa società tecnologica.

Il telefono oggi si è trasformato in un bene di consumo, in un oggetto personale, non più fisso ma portatile, miniaturizzato, tanto piccolo che lo puoi nascondere in tasca come ti pare, che ti accompagna dappertutto. Puoi usarlo per parlare o anche per inviare messaggi scritti su un piccolo ma capiente visore.

Con l'avvento dei cellulari puoi comunicare con chi vuoi, quando ti pare, dovunque sei, evitando quelle situazioni angosciose alla ricerca di un telefono libero, se c'è l'urgenza di comunicare qualcosa.

Con il cellulare, che riesce pure a collegarsi con il satellite, puoi telefonare anche in capo al mondo, nell'emisfero opposto, in pochi secondi.

In buona sostanza il telefono cellulare è divenuto un giocattolo tecnologico.

Ma dopo la festosa accoglienza che si riserva a tutte le novità, il cellulare ha cominciato ad evidenziare alcune caratteristiche che forse erano state sottovalutate. Quelle che si ritenevano vantaggi ora per vari versi si rivelano caratteristiche non proprio piacevoli. In alcuni casi il nuovo oggetto si sta rilevando un vero e proprio tormentone.

Oggi il cellulare si è impadronito di noi, non ti da più tregua, ti scova ovunque e non c'è certezza del luogo dove si trova il tuo interlocutore. Prima di iniziare a parlare sei costretto a fare alcune premesse, hai bisogno di stabilire le "coordinate della comunicazione". Hai bisogno di chiedere: Dove ti trovi? hai bisogno di dire: "Io, invece, sono in tale posto". Prima lo sapevi dove finiva la tua voce! Spesso capita di parlare con qualcuno che, ironia della sorte, si trova a pochi passi da te.

Quello che non sopporto dei cellulari è la prepotenza con cui sembrano invadere la vita di tutti i giorni, calpestando la privacy individuale. Non c'è tregua, in qualunque momento, in qualunque luogo sei raggiungibile, non puoi sottrarti allo squillo infame che ti sorprende qualunque cosa tu stia facendo, anche la più segreta.

Avrete di sicuro provato la spiacevole sensazione che si prova nel ricevere la telefonata del vostro capufficio mentre state facendo la doccia o quando lo squillo della vostra bella vi raggiunge mentre voi prosaicamente siete concentrati nell'atto di masticare una fiorentina al sangue.

E che dire dell'angoscia che vi prende quando sentite squillare disperatamente il vostro cellulare e non riuscite a capire da dove viene il suono? Vi tastate dappertutto, forse è nel taschino dei pantaloni, forse nel posto più sperduto della borsa d'ufficio, sepolto tra le carte e le matite, forse chissà dove …

L'uso del cellulare in treno, poi, sta diventando una vera mania ed uno spiacevole fastidio per chi cerca di sfuggire alla monotonia di quei momenti, immergendosi nella piacevole lettura di un buon libro. Niente da fare, squilli di tutti i generi che ti assalgono da ogni parte. Ce n'è un campionario senza fine, trilli, rumori, sirene, musichette allegre o impegnate, da l'ottava di Beethoven al Ponte sul fiume Kwai, dalla Marsigliese alla Piccola serenata notturna, dal Valzer delle candele all'Internazionale, ce n'é per tutti i gusti.

E poi le telefonate che sei costretto ad ascoltare, tuo malgrado: "Pronto, sono sul treno, e tu dove sei? Pronto, alza la voce, non sento. Dove hai detto che sei? Ah sei sul mio stesso treno … E giù banalità del genere urlate da un capo all'altro del convoglio.

Poi c'è il cellularomane snob. Lo si riconosce subito! A lui il cellulare non squilla, vibra. E' quello che con fare disinvolto estrae dalla cintola un mini - mini telefono con i numerini microscopici, croce e delizia dei presbiti e, senza darlo a vedere, lo accosta all'orecchio ed ascolta. Semplicemente ascolta, senza pronunziare neanche una sillaba. Lui ha l'aria assorta di chi stia facendo un corso serale di trasmissione a distanza del pensiero, ma chi gli sta vicino percepisce chiaramente la disperazione del malcapitato che dall'altro capo del telefono continua a ripetere con voce sempre più alta: Pronto! Pronto! Disperatamente pronto!

Tra le scene più singolari cui mi è capitato di assistere nel treno Roma - Ciampino - percorrenza 15 minuti da stazione a stazione - una telefonata interminabile che pareva una confessione, durata tutto il percorso. Proprio una confessione, perché al telefonino c'era un distinto prelato in cleridgeman che con fare sommesso continuava a ripetere: No! Questo non si fa, non va bene! Abbi fiducia e vedrai … No! Devi credermi e sperare …. Assitevo, mio malgrado, e con un certo imbarazzo alla conversazione pensando che si trattasse di una vera confessione. Ho creduto per un momento che questi mezzi tecnologici stessero mandando in pensione anche il vecchio confessionale.

(riproduzione vietata)

Il limoncello

IL LIMONCELLO

Di ritorno da un viaggio sulla Costiera amalfitana, conservo il dolce gusto del “limoncello” il classico liquore di Sorrento che ho bevuto a fine pasto, quale giusto complemento delle deliziose specialità gastronomiche del luogo.

Il limoncello é ricavato dalla buccia dei limoni prodotti nella costiera amalfitana dove il clima é ideale per la crescita delle specie più grosse e profumate.

La storia del limoncello è nebulosa e le ipotesi sono tante e suggestive. Qualcuno sostiene che il limoncello veniva utilizzato dai pescatori e dai contadini al mattino per combattere il freddo, già ai tempi dell’invasione dei saraceni. Altri, invece, ritengono che la ricetta sia nata all’interno di un convento monastico per deliziare i frati tra una preghiera e un’altra. Vero é che le grandi famiglie sorrentine, agli inizi del 1900, non facevano mai mancare agli ospiti illustri un assaggio di limoncello, realizzato secondo la tradizionale ricetta.

La ricetta che trascrivo, forse non sarà quella tradizionale, ma è l’unica che sono riuscito a ricavare visitando una fabbrica di liquore nel centro di Sorrento:

ingredienti per confezionare 1 litro e mezzo di Limoncello:

- 10 limoni di media grandezza non trattati,

- - 1 litro di alcol a 90°,

- - 400 gr di zucchero

- - mezzo litro di acqua

Lavate accuratamente i limoni e tagliatene la scorza sottilissima, stando attenti a non tagliare la parte bianca. Mettete le scorze su un tagliere e riducetele a piccole listarelle.

Raccogliete le listarelle di limone in un barattolo di vetro a chiusura ermetica, versateci sopra tutto il litro di alcol, chiudete e lasciate in infusione per 15 giorni.

Trascorsi i 15 giorni, preparate lo sciroppo di acqua e zucchero. In un pentolino versate zucchero e acqua contemporaneamente, quindi scaldate a fuoco dolce fino a che lo zucchero non si sarà tutto disciolto. Spegnete e fate raffreddare a temperatura ambiente.

mercoledì 7 novembre 2007

I mangiatori di peperoncino

LA SFIDA DEI MANGIATORI DI PEPERONCINO

L'appuntamento è per lunedì 12 novembre. Il record da battere è quello di Francesco Vecchio: ottocento grammi in trenta minuti Mangiatori di peperoncino da guinnes si sfidano in torneo ad Albese con Cassano (Como).

Golosi del peperoncino, corteggiatori del piccante, amatori dei sapori forti, siete pronti ad accettare la sfida? Per voi sta per iniziare un torneo – quello dei Mangiatori di Peperoncino – con tanto di record imbattuto da superare: gli ottocento grammi mangiati da Francesco Vecchio in soli trenta minuti nel 1997. L’appuntamento con la ventesima edizione di questa bizzarra manifestazione è per lunedì 12 novembre alle 20 al “Pesce Vela” di Albese con Cassano (Como).

Il premio per chi supererà il primato sarà, per stare in tema, un peperoncino d'oro massiccio. La gara, organizzata come sempre dal suo patron Generoso Ferrara, avrà luogo nei locali del ristorante-pizzeria "al Pesce Vela" (in via Roma n. 130), e vedrà la partecipazione di un numeroso pubblico, tra giornalisti, sostenitori e affezionati partecipanti, provenienti da diversi paesi e città d'Italia e in particolare dalle province di Como, Varese, Lecco, Milano e anche dalla vicina Svizzera e da altre parti d'Italia, tutti appassionati del piccantissimo peperoncino, da mangiare crudo e al naturale.

Per informazioni contattare "al Pesce Vela" al n. 031/426129 o consultare il sito www.pescevela.it.

Fonte: http://www3.varesenews.it/insubria/articolo.php?id=83603

martedì 6 novembre 2007

Un viaggio in costiera amalfitana

Il mio viaggio sulla Costiera amalfitana.

«Conosci tu la terra dove il limone fiorisce? Laggiù, laggiù voglio con te fuggire». (Goethe)






Sono le immagini incantate di un luogo di sogno: la Costiera amalfitana che in circa 80 Km. di costa costituisce un vero e proprio scrigno di arte, colori e paesaggi dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco.

La mia base è ad Atrani a pochi passi da Amalfi, anzi, a pochi gradini perchè ad Amalfi si giunge dopo essersi arrampicati per ardite scalinate, tra stretti vicoletti e pittoreschi scorci sulla costiera.

Atrani, il più piccolo comune dell’Italia meridionale, conserva intatto il suo antico carattere di piccolo borgo di pescatori sviluppatosi attorno ad una minuscola piazza. Chiusa tra le sue vecchie case dai balconi fioriti, la piazzetta di Atrani si apre solo sulla spiaggia e sul mare, attraverso un passaggio creato per mettere in salvo le barche dalle mareggiate. Le case, poi, si arrampicano lungo le pendici rocciose della collina, verso la valle attraversata dai giardini e dalle coltivazioni di limoni. Il silenzio, sovrano custode della serenità del luogo, è rotto solo dal canto dei galli e dallo scampanio delle numerose chiese arroccate sugli strapiombi e sugli anfratti delle rocce della vallata sovrastante. I festosi chicchirichì risvegliano vecchi e cari ricordi. I festosi canti si ripetono ogni mattino e sembrano richiamare gli umani al lavoro quotidiano. Qui tutto e pace e serenità; l’ospitalità della gente del luogo è calda e sincera. E’ un piccolo Paradiso. Leggo su un bassorilievo di ceramica che Il giorno del giudizio, per gli amalfitani che andranno in paradiso, sarà un giorno come tutti gli altri. (Renato Fucini, 1878)


E’ da Vietri sul mare che inizia il mio viaggio con l’incanto delle sue ceramiche d’arte caratterizzate dai brillanti colori ispirati ai toni della incomparabile natura circostante: il verde del mare che si insinua negli anfratti della costa, il giallo e l’arancio degli agrumi che crescono sulle terrazze coltivate, il turchese ed il blu che segnano il punto di fusione tra cielo e mare.

Ravello è un incantato borgo con lo spettacolare belvedere sull’intera costiera offerta dalla Villa Cimbrone e con l’infinita varietà di colori delle fioriture della Villa Rufolo.

Si passa, poi, ad Amalfi con lo splendido Duomo e l’elegante Chiostro del Paradiso. Amalfi, patria di Flavio Gioia, fu una delle più antiche repubbliche marinare e quella che raggiunse una considerevole forza economica: i mercanti amalfitani riuscirono a sottrarre agli arabi il monopolio dei commerci mediterranei, fondando già dal X secolo basi mercantili in diversi punti dell’Italia meridionale e del Medio Oriente. Agli amalfitani è attribuito il primo codice di diritto marittimo: Le Tavole amalfitane che sono custodite nella Biblioteca municipale.

Si va poi alla raffinata e mondaiola Positano. Un gruppo di case bianche e colorate aggrappate alla roccia degradanti a mare, inframezzate da giardini di limoni profumati, che si specchiano in un mare cristallino un tempo abitato dalle sirene incantatrici, in un contesto naturale e architettonico unico al mondo. Positano è un centro turistico e di moda. Le sue boutique coloratissime hanno fatto la fortuna della moda positanese. Meta ideale per anni di pittori, letterati musicisti. John Steinbeck, scrittore americano innamorato della cittadina racconta in un suo libro la storia di Positano: Quando Tiberio si trasferì a Capri per contrasti e dissidi che incontrava a Roma, non si fidò di nessuno. Temeva di essere avvelenato, pertanto non mangiava più il pane di Capri e faceva venire la farina per la sua cucina direttamente da un mulino di Positano che ancora oggi esiste.

Con un autobus di linea raggiungiamo Sorrento, patria di Torquato Tasso. E’definita la città dei giardini e dei limoni. E’ qui che si produce il famoso ed apprezzato “limoncello”.

A bordo di un traghetto, si parte dal porto di Amalfi per Capri. Nell'isola soggiornarono imperatori e nobili romani. Augusto nel 29 a.C. vi soggiornò. Tiberio abbandonata la sua villa di Sperlonga, trascorse gli ultimi anni della sua vita a Capri nella sua villa edificata sulla sommità del monte Tiberio (oggi villa Jovis). A Capri le innumerevoli bellezze naturali: le sue grotte a mare, l'Arco naturale, i Faraglioni imprimono al visitatore un ricordo incancellabile.

La nostra visita nell'isola è, purtroppo, stata breve per i ristretti orari dei traghetti e per le notevoli distanze da percorrere esclusivamente a piedi ma il ricordo che serberò sarà stupendo e credo di aver deciso che a Capri vorrei trascorrere il resto della mia esistenza.

"Perchè i luoghi mi rendono felice e le persone triste?" (Proust)


(link per guardare tutte le fotografie)


giovedì 25 ottobre 2007

INCUBO METROPOLITANO



Stazione Termini!

due ore di viaggio

al giorno!

Pellegrino tra una folla

senza volto,

fagocitato da una città

tentacolare.

Traffico urbano!

Urla di sirene,

frastuono di clackson,

rombi assordanti

di motori impazziti,

crepitii di un martello pneumatico

che scava.

Decibel in libertà!

La nube nera

d'una marmitta assassina

m'avvolge.

Il gusto acre di morte

proprio non va giù.

Soffoco!

Resisto ancora!

Lontano, la emme rossa del metrò

sembra una via di scampo.

Una scala mobile trascina tutti, in fondo,

sempre più in fondo,

nel cuore buio

di un tunnel

che corre verso l'ignoto.

Un treno m'inghiotte!

Mi ritrovo ancora

solo tra una folla disperata,

che va.

Un posto si libera!

Con voluttà

sprofonda

la mia stanchezza

esistenziale.


Chiudo gli occhi,

sogno!


Visioni apocalittiche!

Il settimo sigillo:

il sole diventa nero,

la luna color del sangue,

le stelle del cielo

s'abbattono sulla terra.

Dal fondo del tunnel

un vecchio bianco

venirci incontro gridando:

"E' venuto il giorno

della grande ira,

guai a voi

abitanti della terra,

vengo a traghettarvi

ad altra riva,

tra le tenebre eterne!

Impaurito ascolto

il suono

della Settima tromba.

Anagnina!

Il metrò è fermo,

sputa fuori

l'umanità

senza storia,

senza volto,

senza anima.

La vie en rose!

La melodia

d'una fisarmonica

accompagna la risalita.

Accecato dalla luce

fluorescente

di questo mattino,

sono fuori………

a riveder le stelle!


(di Pino Ferrara, giugno 1999)

martedì 23 ottobre 2007

L’uva “Serpe” ed il vino Cecubo

Fonti giornalistiche di recente, hanno dato notizia di una importante iniziativa per il recupero di uno dei più antichi vitigni autoctoni del Lazio: l’uva “serpe” da cui veniva prodotto il vino Cecubo, tanto apprezzato ai tempi dei Romani.

L’azienda agricolo promotrice dell’iniziativa è la Masseria del monti del Cecubo ubicata sulla strada della Magliana che collega Itri a Sperlonga.

La Regione Lazio, prima di includerlo tra i vitigni autoctoni ammessi alla cultura, ne sta studiando i caratteri organolettici della vite che produce questa uva. L’impianto viticolo, sotto il controllo di tecnici regionali è a buon punto di realizzazione e prossima è quella della produzione e della commercializzazione del vino.

un po' di storia

Quando Appio Claudio Cieco, il costruttore dell’Appia, la Regina viarum, che collegava e collega Roma a Brindisi, dopo un agevole percorso nella pianura pontina, si imbatte nei monti che da Fondi, attraverso Itri, accarezzano il cielo fino a Formia, trovò un ostacolo impervio da superare. Ma lo accolse, a lenimento delle sue fatiche, un pregevole ventaglio di vini che, è da ritenere, trasportò a Roma come un carico più prezioso di un trofeo di guerra.
Cecubo si suppone derivi da caecus (cieco), congiunto a bibeo (bevo), o bibere (bere), vocaboli fusi insieme ad identificare il bere del cieco, cioè la bevanda preferita proprio da Appio Claudio Cieco. Plinio il Vecchio classificò prima il Cecubo e, poi, il Falerno, precisando antea coecubum, postea falernum. E la dice lunga quel postea falernum, cioè dopo il celeberrimo vino che Petronio, nella famosa cena, fece offrire da Trimalcione ai convitati, esterrefatti, con il commento: questo vino ha cento anni; esso ho vita più lunga dell’uomo. Columella, poi, nel De Agricoltura, individuò il sito di produzione del miglior vino dell’Impero sulle alture sopra la “spelunca”, oggi Sperlonga. Ed Orazio, nella seconda ode, ricorda che i vini cecubi erano nascosti, come un bene prezioso, sotto cento chiavi, ed erano superiori persino a quelli offerti negli opulenti banchetti dai Pontefici.

L’uva serpe, da cui si ricava il vino Cecubo ha la caratteristica di tramutarsi in un vino corposo, rosso, intenso, con una nota amara e dolce insieme, un vino che tinge il pavimento con macchie indelebili, come ricorda Orazio nel celebre verso, vero tinget patvimentum superbo.

Il suo anno di nascita si perde nella notte dei tempi. Il vitigno dell’uva serpe non ha al mondo riscontri che ne possano stabilire la sua origine per trasmigrazione: esso è proprio il frutto spontaneo di questa ristretta striscia di terra dei comuni di Itri e Sperlonga e, per l’alta qualità del prodotto, costituisce proprio un dono di Dio.

L’origine antichissima dell’uva serpe trova un convincente riscontro in Columella che, nel tratteggiare le varie specie di vitigni, già antichi per la sua epoca del I secolo dC., menziona l’esistenza di un’uva che dava un vino robusto e che veniva prodotta da un vitigno chiamato Dracontion, che, in greco, significa serpente. Columella, scrivendo in latino, ha fatto ricorso, per indicare questo vitigno, ad un termine in lingua greca, che era quella originaria degli antichi abitanti dell’antichissina città di Amyclae che sorgeva sul litorale tra Fondi e Sperlonga. (Virgilio ne fa risalire l’origine ai Laconi, provenienti dal Peloponneso, regione abitata dagli Spartani). Gli Amiclani piantarono sui colli di Itri la vite dell’uva serpe, anche come retaggio delle proprie credenze religiose.
I popoli dell’antichità, quando trasmigravano da un posto ad un altro, si portavano dietro quelle che erano te radici della loro civiltà, costituita dalle coltivazioni principali e dalle credenze religiose e, tra le prime, il grano e le viti. Chi si inoltra tra le balze dei Monti Cecubi scopre che addosso dei ruderi di ogni antico fabbricato, proprio in prossimità dell’ingresso principale, vi è ancora un grosso tronco di vite pluricentenaria: é la vite dell’uva serpe che ogni avo, in occasione della costruzione di un nuovo fabbricato, usava piantare, di generazione in generazione, a protezione e tutela della dimora familiare proprio in prossimità dell’uscio. E proprio al rispetto sacrale di questa millenaria tradizione contadina dobbiamo ora la conservazione dell’uva serpe.

(Tratto da un corposo studio della dott.ssa Maria Antonietta Schettino Pubblicato sulla Gazzetta degli Aurunci, Anno XV, n. 5, Maggio 2006).

GAETA, Storia e leggenda - I°



Mitico ed avvolto da leggende è l'origine del nome di Gaeta (Caieta). Virgilio (Eneide, VII, 1-4) ove morì la nutrice di Enea, che avrebbe dato il nome al luogo. E Dante, quasi a significare la storicità del poema virgiliano, confermò l'avvenimento (Inferno, XXVI, 92).

Nell'età romana Gaeta divenne un rinomato luogo di villeggiatura di vari imperatori, consoli e ricche famiglie patrizie; come notò Cicerone, nel 66 a.C., fu anche un porto di notevole importanza. Sin dall'ultimo secolo della Repubblica, sulle circostanti colline, lungo la lunata spiaggia della rada di Gaeta e su tutta la costiera verso Sperlonga, sorsero grandiose ville con giardini e piscine, ninfei, templi e mausolei di cui restano imponenti testimonianze. Ancor oggi ammiriamo le tombe dei consoli Lucio Munazio Planco, sulla sommità di Monte Orlando, e di Lucio Sempronio Atratino, sul versante settentrionale dell'omonimo colle.

Nell'alto Medioevo, per la posizione della penisola alta e rocciosa, facilmente difendibile, Gaeta divenne una rocca munita, cioè un castrum, costituendosi verso la metà del secolo IX in autonomo e fiorente ducato, oltre che sede vescovile, e dando inizio così ad un intenso commercio marittimo nel Mediterraneo. Il ducato di Gaeta rappresentò, altresì, un'entità di notevole importanza tra il modo cristiano e quello saraceno (battaglia del Garigliano, 915), tra lo Stato della Chiesa, la Terra S. Benedicti, i ducati ed i principati longobardi e bizantini dell'Italia meridionale.
L'originario nucleo urbano sull'estrema parte orientale del promontorio si era sviluppato, digradando verso il mare ed occupando lo spazio fin quasi alle prime falde di Monte Orlando. Due cinte murarie si ebbero al tempo di Docibile I (867/906) e di Giovanni I (877/933): la prima racchiudeva l'abitato più antico intorno alle chiese di S. Lucia e di S. Caterina per poi proteggere il versante rivolto alla rada, nei pressi della porta Dominica e del palazzo di Docibile I, e risalire l'altura fin dove poi sorse la parte superiore del castello; l'altra cingeva l'area abitata sviluppatasi fino all'attuale piazza Commestibili, venendo così a difendere il settore urbano più esposto ad eventuali assedi nei primi decenni del X secolo e dominato dal palazzo-torre di Giovanni I, patrizio imperiale.
Contemporaneamente alla formazione della civitas ducale si venne a costituire - lontano dalle mura - sulle prime pendici di un colle, che poi avrà il nome dei Cappuccini (dalla metà del sec. XVIII), un modesto insediamento di pescatori e di agricoltori attorno alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano (è il nucleo originario del "Borgo di Gaeta").

GAETA - Storia e leggenda 2°


Con Ruggiero II normanno (verso il 1140) Gaeta divenne città di confine del "grande regno" verso lo Stato della Chiesa, assumendo nel contempo un graduale carattere di piazzaforte con varie cortine di bastioni e di opere falsificate, tanto che sarà poi definita la "chiave del Regno di Napoli". Questa progressiva militarizzazione di Gaeta, strettamente collegata alla sua posizione strategica, risalterà nei secoli successivi per gli innumerevoli e memorabili assedi. Questi segnarono lungo tutto l'arco discendente del periodo medievale, ma in particolar modo nell'età moderna, altrettanti episodi decisivi per il Mezzogiorno d'Italia. La caduta della fortezza coincise, spesso, con l'avvento di una nuova dominazione straniera o di una nuova dinastia sull'Italia meridionale. Dal 1032, anno del tramonto del potere dei Docibile sul ducato di Gaeta, al 1504 con la conquista del Regno di Napoli da parte degli Spagnoli, si succedono varie dominazioni (longobarda, sveva, angioina, durazzesca, aragonese), che fanno di Gaeta la seconda capitale del Regno. In questo stesso periodo Gaeta divenne, non di rado, base per la conquista di Napoli (Ladislao di Durazzo nel 1399; Alfonso d'Aragona nel 1442).


La permanenza in Gaeta di alcuni sovrani determinò la costruzione di notevoli edifici, civili e religiosi, che hanno conferito al nucleo urbano, arroccato sull'estrema punta del promontorio, una particolare impronta storico-artistica: tra i tanti basterà ricordare il castello, divenuto sede regale con Alfonso d'Aragona negli anni 1436/42. La lunga presenza spagnola nella cittadina tirrenica (fino al 1707) mutò profondamente il suo ruolo di centro commerciale, legato alla vita sul mare, attraverso grandiose opere difensive, portate a termine da Carlo V (1538), che ridussero il centro urbano al rango di cittadina militare. Agli Spagnoli seguirono gli Austriaci, mentre nel 1734 si ebbe la conquista di Gaeta da parte di Carlo di Borbone, il fondatore della nuova dinastia borbonica napoletana. Ancora una volta le fortificazioni e le varie opere di difesa ebbero un ruolo preminente nell'organizzazione urbana. Durante il lungo periodo borbonico non mancarono assedi (1799, 1806 e 1815) oltre che un avvenimento d'interesse internazionale: il 25 novembre 1848, il pontefice Pio IX si rifugiò in Gaeta (fuggito da Roma per la proclamazione della Repubblica), tanto che fino al 4 settembre 1849 la cittadina tirrenica assunse il ruolo di "secondo" Stato della Chiesa. Il 13 febbraio 1861 sotto le mura di Gaeta terminò la dinastia borbonica e si ebbe il compimento dell'Italia unita.

Il secondo conflitto mondiale ha segnato una nuova tragedia travolgendo uomini e cose. Dalle immani distruzioni della guerra, dalla dispersione della sua popolazione si è originata una nuova realtà urbana, che per un certo periodo ha espresso alcuni valori che dall'eredità del passato si potevano coniugare con il presente legato ad una nuova economia, espressione dei settori industriale e commerciale.

Oggi Gaeta è costituita dal patrimonio paesaggistico, monumentale, artistico e culturale.

giovedì 18 ottobre 2007

Poesie di Loreta Nunziata

Non siamo deboli instauratori d'infedeltà
vittime di dicerie, di bugie, di persecuzioni,
siamo capaci di introspezione, di libertà
nostra e conquistata con le intercessioni.
(da Antologia Virtuale della poesia italiana - Loreta Nunziata: L'incredulo)


La vita

La vita non è un cammino semplice e lineare lungo il quale possiamo procedere liberamente e senza intoppi, ma piuttosto un intricato labirinto, attraverso il quale dobbiamo trovare la nostra strada, spesso smarriti e confusi, talvolta imprigionati in un vicolo cieco. Ma sempre, se abbiamo fede, si aprirà una porta forse non quella che ci saremmo aspettati, ma certamente quella che alla fine si rivelerà la migliore per noi. Archibald Joseph Cronin

(tratto da http://www.pensieriparole.it/aforismi/autori/a/archibald-joseph-(aj)-cronin/pag1)

mercoledì 17 ottobre 2007

Una doverosa rettifica al Post del 16 ottobre

Ricevo da un anonimo frequentatore del mio Blog il commento al mio post del 16 ottobre intitolato: “Crediamo più al gossip che a quanto vediamo”.
Il commento è questo:
Non siamo deboli vittime di dicerie, di bugie, di persecuzioni, siamo capaci di introspezione, di libertà. La capacità di discrezione richiede la nostra umanità, il nostro cuore aperto, la nostra disponibilità sincera. A.F.
Innanzitutto intendo ringraziarlo per le parole meditate e profonde di commento a quanto io ho scritto. Poi ritengo di dovere a lui ed a tutti quelli che hanno letto il mio post, delle scuse. Non avrei dovuto riportare una notizia tratta da un quotidiano, in maniera così superficiale ed acritica.
Il commento del mio amico visitatore mi trova completamente d’accordo e quindi, condividendolo in toto, lo faccio proprio.
La notizia di cui non ho trovato ulteriori riscontri o approfondimenti ha, purtroppo, confermato le mie supposizioni. Mi sono sempre chiesto come sia possibile distorcere la verità con notizie incontrollate e artatamente diffuse, magari con inopportuno risalto mediatico, al fine di gettare discredito su qualcuno. Non ho neanche trovato una risposta al comportamento di chi crede che possa esistere una realtà che non possiamo penetrare con la forza della ragione o del sentimento.

martedì 16 ottobre 2007

Gossip o realtà

Crediamo
più al gossip
che a quanto
vediamo

Che le "voci" siano positive o negative, che siano vere o false, non importa. Tendiamo a crederci. Anche se fanno a pugni con le nostre convinzioni o con quello che vediamo con i nostri occhi.

Il gossip è più potente della verità e ci influenza nei giudizi. E quel che è peggio, crediamo più alle dicerie che a ciò che vediamo con i nostri occhi.
Risulta da un esperimento dell'istituto di biologia dell'evoluzione di Plon, in Germania. Lo studio dimostra l'enorme potere di manipolazione delle opinioni insito nel gossip. Soprattutto se si pensa che il pettegolezzo riporta essenzialmente notizie false. Cui finiamo regolarmente per credere.Gli studiosi hanno coinvolto 14 gruppi di studenti, bersagliandoli a colpi di "voci" negative o positive su altri giovani. È emerso che le "cavie" tendevano a credere alle maldicenze o alle lodi intessute da altri. Il 44% dei partecipanti infatti ha cambiato la propria opinione sotto l'influenza del gossip, anche quando esso contraddiceva ciò che avevano visto coi loro occhi o che già sapevano. Il test dimostra come il gossip e i suoi effetti negativi non riguardino solo i vip delle pagine dei rotocalchi, ma soprattutto la nostra vita quotidiana. E come alle dicerie, anche se false, crediamo anche se contraddicono ciò che abbiamo visto o di cui abbiamo esperienza.

(tratto dal quotidiano City del 16 ottobre 2007)

mercoledì 3 ottobre 2007

Una gita a Tursi e Anglona


Tursi si trova a 20 km dalla costa ionica, su una altura argillosa, a 210 metri s.l.m., posta tra il fiume Agri e il fiume Sinni. Il suo territorio comprende una zona interna collinare, caratterizzata dalla presenza di oliveti che si alternano alle zone a calanchi e ai boschi, e una zona pianeggiante e fertile versi il mare, dove è molto sviluppata la coltura delle arance.

Il nome del paese si fa derivare da Turcico, dal nome del suo probabile fondatore, trasformato in Tursikon e poi in Tursi, oppure da "turris", con chiaro riferimento alla torre del castello.

L'origine di Tursi è sicuramente molto antica. L'opinione più comune è che Tursi abbia avuto origine intorno ad un castello, costruito dai Goti verso il quarto o il quinto secolo, ad opera dei fuggiaschi della vicina Anglona, distrutta dagli stessi Goti. Un villaggio agricolo esisteva già in epoca romana, come è dimostrato dai continui rinvenimenti di tombe e monete. Il primo nucleo abitativo, sorto attorno al castello, con l'arrivo degli Arabi, che ne fecero una roccaforte per il controllo della costa Jonica, prese il nome di Rabatana.

Tursi ha dato i natali al poeta Albino Pierro, nato a Tursi nel 1916 e morto a Roma nel 1995, più volte candidato al premio NOBEL per la letteratura. Le sue poesie in dialetto tursitano raffigurano la primigenia anima lucana ed hanno come tema dominante il mondo autobiografico della fanciullezza.

Il quartiere della Rabatana di Tursi è sicuramente la parte più caratteristica del centro storico, testimonianza dell'insediamento arabo in quest'area.

Nel corso dei secoli IX e X da Bari, sede di un emirato arabo dall'847 all'871, gli Arabi si spinsero all'interno dell'Italia meridionale, quindi anche della Basilicata, per compiere saccheggi e catturare prigionieri da vendere come schiavi nei centri dell'impero islamico, in quel periodo in una fase di massima espansione.

Secondo alcuni cronisti del tempo e secondo le fonti disponibili, gli stanziamenti arabi furono consistenti e di lunga durata in molti centri del medio bacino del Bradano e del Basento, nel Basso Potentino e nella Val d'Agri. Le numerose tracce architettoniche che ancora si possono leggere in molti centri storici e le tracce linguistiche nei dialetti locali, fanno ritenere che non si trattò esclusivamente di insediamenti militari, ma di vere e proprie comunità articolate, dove un ruolo di rilievo era svolto da mercanti ed artigiani.

Le tracce degli insediamenti arabi sono ancora perfettamente leggibili a Tursi, a Tricarico e a Pietrapertosa: si tratta di quartieri che la tradizione appella come Rabatana, Rabata o Ravata, richiamando etimologicamente il termine ribat, che in arabo significa luogo di sosta o anche posto fortificato. Sono per esempio ancora leggibili a Tricarico i due quartieri della Rabata e della Saracena, con le porte di accesso e le rispettive torri, risalenti all'XI secolo.

La Rabatana di Tursi coincide con la parte più alta dell'abitato altomedievale, in ottima posizione difensiva. L'intrico edilizio che ancora caratterizza questo quartiere era dominato dalla presenza del castello, di cui attualmente restano poche tracce. La Rabatana è collegata al corpo del paese per mezzo di una strada ripida (in dialetto "a pitrizze"). L'antico borgo saraceno è indissolubilmente legato alla poesia dialettale di Albino Pierro.

Nel cuore della Rabatana sorge la Chiesa Collegiata di S. Maria Maggiore, e, volgarmente detta Madonna della Cona. All'interno vi è una catacomba (Kjpogeum), di struttura gotica e adornata da scritture sacre. Gli affreschi presenti, risalenti al XVI secolo, sono riconducibili a Simone da Firenze e ad allievi della scuola di Giotto. Al suo interno si trova inoltre uno stupendo presepe in pietra realizzato nel XV sec. da autore incerto (Altobello Persio o più probabilmente Stefano da Putignano, autore del presepe presente all'interno della Cattedrale di Altamura).


La chiesa di Santa Maria d’Anglona -Il colle di Anglona risulta sede di insediamenti sin dall'età del Bronzo e del Ferro; il sito viene inoltre identificato con la città greca di Pandosia, riportata sulle Tavole di Heraclea. Il nome Pandosia allude alla fertilità della zona, che insieme alla posizione strategica del sito rispetto all'antica rete stradale, permise un notevole sviluppo dell'abitato soprattutto in età ellenistica (IV - III secolo a.C.).

Sull'antico abitato sorse nel Medioevo un nuovo centro, di cui oggi rimane solo la chiesa di S.Maria di Anglona. La chiesa esisteva sicuramente nel 1092, e alcune strutture risalgono infatti all'XI secolo, anche se l'aspetto attuale risente notevolmente delle modifiche apportate nel corso dei secoli: fra il XII e il XIII risalgono gli affreschi superstiti presenti sulle pareti della chiesa; ascrivibile alla prima metà del XIII secolo la trasformazione della zona absidale e la veste decorativa dell'esterno; al XV secolo risalgono invece l'ala sinistra della chiesa, l'abside, i dipinti di santi sui pilastri della navata.

Nel XIV secolo avvenne la distruzione della città di Anglona, e anche la Cattedrale, pur risparmiata, perse progressivamente il suo prestigio. Nel 1931 la chiesa fu dichiarata monumento nazionale, ma solo negli anni '60