Antonio dalla banchina del molo Santa Maria indirizzò a Giovanni il solito saluto sonoro ed allegro: - Signor capitano … -
All'amico, con un pizzico di celia, esprimeva in quel modo tutto l'affetto e la stima che provava per lui. Considerava Giovanni un personaggio degno di considerazione e rispetto per la sua fama di lupo di mare che si era conquistato in anni ed anni di navigazione per tutti mari del mondo.
- Uhè, a bellezza di don Antonio … -
Giovanni, dopo aver piegato in fretta ed alla buona le carte nautiche, scese dalla scaletta del rimorchiatore con le braccia tese in segno di cordialità, come si conviene ad un amico di vecchia data.
- Che dici? Che dici? … - Chiese, invitando l'amico a proseguire la conversazione nel vicino bar di Piazza Traniello dove erano soliti incontrarsi a quell'ora per il consueto aperitivo.
Con il "Capitano", Antonio aveva diviso gli anni migliori della sua giovinezza. Ambedue di Gaeta, cresciuti insieme tra i vicoli di Via Indipendenza, avevano studiato all'Istituto Nautico, erano partiti insieme per i primi imbarchi da allievi ufficiali sulle navi della marina mercantile, agli inizi degli anni cinquanta. Poi, dopo anni di navigazione, Giovanni era diventato capitano di coperta ed Antonio direttore di macchine.
Ne avevano visto delle belle durante i lunghi imbarchi che a quei tempi duravano mesi e mesi, a volta anche interi anni. Trascorrevano tanto tempo lontano da casa, soli in mezzo al mare. Un mare sconfinato che si perdeva all'orizzonte fin dove iniziava il cielo, in quella linea lunga e piatta che sembrava rappresentare il loro destino.
Quando poi ti assaliva la nostalgia della famiglia, non c'era neanche il conforto di un telefono a portata di mano per chiamare casa. C'erano, infatti, difficoltà per telefonare bisognava prenotarsi, fare da ponte con la radio di bordo ma anche così non si riusciva ad avere una comunicazione soddisfacente.
Non restava che il lavoro. Tuffarcisi dentro e non pensare!
I turni di guardia erano lunghi e duravano ore interminabili nelle quali bisognava tenere costantemente sotto controllo i motori navali e gli strumenti di bordo che segnavano la rotta, ed essere pronti a fronteggiare qualsiasi evenienza.
Non c'erano domeniche o feste comandate, solo lavoro, lavoro e basta, con qualsiasi tempo, tra il caldo dei mari del sud e le tempeste di neve e ghiaccio quando si oltrepassava Capo Sumbrgh, ad ovest delle isole Shetland, porta dell'Oceano Atlantico.
Poi lentamente ci si abituava a quella vita, un po’ per rassegnazione e un po’ per necessità. Le paghe erano ancora buone e con quella vita, trascorsa sempre in navigazione, si riusciva a mettere da parte, tolte le poche spese vive, quasi tutto lo stipendio.
Alla fine il mare finiva per avere il sopravvento, ti penetrava dentro, si mescolava con il sangue nelle vene e diventava parte di te stesso. Era come l'ossigeno che ti entra nei polmoni e ti fa respirare. Ed ancora oggi, dopo anni di mare, solo mare, nient'altro che mare, sentivano il bisogno di guardarlo, il mare, di respirarlo, di ascoltarlo, di carezzarlo con lo sguardo.
* * *
Ormai Antonio e Giovanni erano "ufficialmente" in pensione da alcuni anni, ma alla vita da pensionati non erano ancora riusciti ad abituarsi del tutto.
Antonio, dopo qualche settimana di ozio forzato, non gliel'aveva fatta più, non aveva resistito oltre, lontano dal suo mare azzurro. Una bella mattina si era recato alla darsena di Montesecco da un amico pescatore che gli aveva mostrato alcune barche in vendita. La sua scelta era caduta su un gozzo di tre metri e mezzo, tutto in legno, con motore entrobordo da venticinque cavalli ed un piccolo cabinato.
Non era proprio la barca dei suoi sogni, ma era più che sufficiente per quello che intendeva farci. Con quella barca avrebbe affrontato con sicurezza quello specchio di mare. Lo avrebbe percorso in lungo ed in largo senza mai allontanarsi più di un paio di miglia dalla costa.
Impiegò più di un mese a sistemare la barca. Da un suo amico calatafaio fece assestare alcune assi dello scafo, fece rettificare il motore e rifare l'impianto elettrico. Poi con una verniciata generale, rese il suo gozzo pronto a competere con barche di sicuro più costose e potenti.
Antonio aveva anche acquistato una rete da strascico, uno sciabachiello, come lo chiamavano i pescatori del luogo, che avrebbe usato con gli amici nelle uscite di pesca.
Con la sua barca Antonio era felice, anche se doveva svegliarsi all'alba. Lo faceva con compiaciuta rassegnazione, come fosse per un turno di guardia quando era imbarcato. In fretta si recava alla darsena, saltava a bordo del suo gozzo, metteva in moto e salpava l'ancora per la sua traversata tra un capo e l'altro del golfo.
Ora, in pace con se stesso, aveva vinto la nostalgia del mare. Il sussulto ritmico dei pistoni del suo entrobordo gli ricordava il frastuono delle turbine della sua nave. Gli sembrava così di essere di nuovo in mezzo all'oceano.
Come Antonio anche Giovanni non si era voluto adattare alla vita di pensionato ed aveva cercato subito un'altra occupazione che l'avrebbe salvato dalla monotonia del non far nulla.
Ne parlò subito col suo amico Giacinto, ammiraglio della marina militare, che era stato per anni comandante del porto di Gaeta prima di andare in pensione. Gli aveva fatto presente che c'era tanto bisogno di capitani di lungo corso, esperti come lui, che facessero i piloti, che guidassero le navi nel porto, dove, con l'intensificarsi dell'attività della locale raffineria, c'era un via vai di petroliere che dovevano attraccare al molo di Porto Salvo per scaricare il greggio. Il lavoro era poco impegnativo e ben remunerato, ma occorreva essere sempre disponibili ad intervenire. C'era da raggiungere la nave a largo, con la motovedetta della capitaneria di porto, arrampicarsi a bordo con la biscaglina e traghettarla con l'aiuto dei rimorchiatori, in porto.
Giovanni lo aveva ascoltato con entusiasmo. Riteneva che quello fosse proprio il lavoro che faceva per lui. Chi meglio di lui, infatti, avrebbe saputo leggere le carte nautiche, chi meglio di lui avrebbe saputo tracciare quella piccola rotta per condurre in porto una nave.
Si convinceva sempre di più, che quello era proprio il lavoro che lo avrebbe fatto sentire ancora attivo e l'avrebbe tenuto a contatto con il mare.
Si mise subito in moto. Prese contatti con gli uffici del Compartimento Marittimo di Napoli e da loro ricevette tutte le informazioni possibili.
Nonostante fosse in possesso di patente nautica ed avesse anni ed anni di navigazione alle spalle, dovette ugualmente frequentare un lungo addestramento e sostenere un esame finale. Poi era stato costretto dalla burocrazia l'aveva a passare da un ufficio all'altro per certificati ed attestazioni. Alla fine quando tutto era a posto aveva ottenuto l'iscrizione nell'apposito elenco dei piloti portuali.
Giovanni aveva iniziato con entusiasmo il suo nuovo lavoro di pilota. Di navi ora ne guidava in porto tante. Perfino tre alla settimana ed a qualsiasi ora.
Con il suo berretto azzurro da nocchiero, si ergeva ritto a prua, scrutando oltre i flutti che si frangevano sullo scafo. Chi lo scorgeva da lontano aveva l'impressione che conducesse per mano la nave che gli era stata affidata, con tenerezza, come se stesse accompagnando un bimbo a scuola.
* * *
L'ombra che il fabbricato proiettava sull'asfalto e la leggera brezza che si era levata dal mare recavano sollievo in quella giornata torrida di fine luglio ai due capitani che sedevano uno di fronte all'altro, attorno ad un tavolino del bar Desanti di Piazza Traniello..
Il ragazzo del bar si avvicinò con il vassoio in mano e posò sul tavolo due variopinti aperitivi con tanti cubetti di ghiaccio. Giovanni afferrò il bicchiere e dopo aver pronunziato la formula d'obbligo: - A' salute, Antò -, trangugiò voluttuosamente il primo sorso della bibita. Antonio lo seguì a ruota, ma prima sgranocchiò una nocciolina.
- Ah! … dimenticavo - fece il ragazzo del bar, - devo consegnarvi una lettera che ha lasciato per voi un marinaio questa mattina presto. Ha chiesto di voi …, noi gli abbiamo detto che vi avrebbe trovato sicuramente a quest'ora, ma ha detto che andava di fretta. Vi ha lasciato questa…
Nel dire ciò sfilò dalla tasca della giacca una busta piegata in due che lasciò sul tavolo.
Giovanni ed Antonio ora morivano dalla curiosità di sapere cosa contenesse quella busta. Di sicuro immaginavano che si trattasse di qualcosa che avesse a che fare con gli anni di navigazione trascorsi insieme.
Antonio afferrò la busta con evidente impazienza, ed estrasse il biglietto. Poi con voce alta, lesse:
"Dear captains, mia nave fatto scalo a Napoli per un solo giorno. Io venuto a Gaeta per vedere e ringraziare voi per quanto fatto a me in quella brutta avventura in mare.
Non posso restare, devo partire.
Bye, John Smith ".
E' lui! - Esclamò Antonio visibilmente emozionato. - E' vivo, ringraziando il Cielo -.
- Ma chi …? proprio John?- Chiese Giovanni schiarendosi la voce per un improvviso groppo di commozione.
Fu un momento indescrivibile! In quell'attimo la sorpresa per l'inaspettata ricomparsa di John si univa al ricordo di quei terribili momenti. La loro mente vagava nel tempo, a ritroso, a tanti anni fa. Erano di nuovo nell'oceano in compagnia di quelle immagini ormai indelebili nella loro memoria.
C'era tempesta, quella notte di novembre. In quel raggio di mare a largo di Capo di buona Speranza, in Sudafrica. Sembrava che le forze della natura avessero prescelto quell'angolo di mondo per sfidarsi in un singolare duello fatto di tuoni, fulmini, raffiche di vento ed onde impetuose e terrificanti, talmente alte da superare per diversi metri le murate della nave. Terrificante anche il beccheggio della prua che ritmicamente s’inabissava, scompariva sott'acqua, riemergeva e con fragore s'impennava puntando al cielo.
Il mare forza 9, la corrente che tirava a dritta, rendevano quasi impossibile tener ferma la rotta. Occorreva spingere le macchine a pieno regime, contrastare la corrente con il timone per non andare alla deriva, ed anche così si rischiavano cedimenti alla precaria struttura di quella vecchia carretta rimessa in sesto alla meglio nei bacini di carenaggio di Napoli.
Giovanni sapeva che era necessario correre quei rischi se voleva venir fuori da quella tempesta che insidiava la vita del suo equipaggio.
Nella torretta di comando ed in sala macchine era tutto un frenetico via vai senza tregua. Dai boccaporti, nelle stive, venivano giù agli uomini comandi, urla, imprecazioni.
Antonio si faceva in quattro, correva su e giù da un pannello all'altro, da un manometro all'altro, da un comando all'altro per spingere le macchine al limite del sostenibile e governare quella situazione.
Ad un tratto dalla sala caldaie si avvertì una forte esplosione.
Un denso fumo cominciò a fuoriuscire dalla sala macchine ed il fuoco con il suo tristo sibilo, cominciò a proiettare bagliori tutt'intorno.
Era il finimondo, non bastavano le condizioni disperate provocate dalla tempesta, ora anche un incidente!
In un attimo il singhiozzo dalla sirena ad intervalli regolari, avvisò tutti dello stato di allarme incendio e tutto l'equipaggio cominciò a radunarsi precipitosamente sottocoperta armato di manichette ed estintori. Giovanni lasciò il comando al primo ufficiale e si precipitò sul luogo dell'esplosione.
Ci volle poco per capire cosa fosse avvenuto. La valvola della prima delle tre caldaie era saltata per l'eccessiva pressione cui le turbine erano state sottoposte, il fuoco ora stava propagandosi dappertutto.
Con le pompe i marinai iniziarono a circoscrivere le fiamme, ma il fumo denso rendeva difficile qualsiasi intervento.
Dal fondo del passaggio che dava alle caldaie, lacero e annerito dalla fuliggine, apparve Antonio che sorreggeva il corpo apparentemente senza vita del marinaio John Smith, colpito in pieno viso dall'esplosione, privo di sensi, con ustioni su tutto il corpo, vistosamente sanguinante. Antonio l'adagiò, appena fuori, su una delle scialuppe di bordo e cominciò a rianimarlo come meglio poteva. Nulla da fare. il cuore cominciava a cedere, il polso era sempre più flebile. Antonio, riverso sul torace del malcapitato, in equilibrio instabile, sballottato di qua e di la dal convulso rullio della nave, cominciò a praticare il massaggio cardiaco.
Erano momenti drammatici ma non bisognava perdere la calma, occorreva fare qualcosa e subito. Giovanni lanciò un urlo al marconista ed insieme, frettolosamente risalirono in sala comando e con la radio di bordo iniziarono a collegarsi con la stazione più vicina. Lanciarono il "May day" più volte sperando che con quella tempesta che infuriava qualcuno potesse ascoltarli.
Niente! Non c'era nessuno in quel maledetto tratto di mare, e poi quella tempesta rendeva ancora più difficile attivare un collegamento con chicchessia.
Un ennesimo tentativo andò finalmente a segno e una voce gracchiante rispose in una lingua strana, un misto di inglese e di spagnolo. Era la guardia costiera di Cape Town..
Giovanni con voce concitata rappresentò la situazione di emergenza in cui si trovavano: un ferito grave, un'avaria alle macchine, una tempesta mai vista prima. Un inferno, insomma!
Il comandante della Guardia costiera annunciò che con quel mare non poteva far null’altro che allertare tutte le strutture di soccorso.
Giovanni era disperato, non gli importava nulla del pericolo che correva l'equipaggio ed anche la sua vita, non gli importava nulla di quella vecchia carretta che forse non avrebbe mai riportato in porto, ma quel povero marinaio bisognava salvarlo, bisognava fare qualcosa per lui a costo di tutto. Riprese il microfono e chiese almeno di parlare con un medico. Li supplicò, per l'amore di Dio.
Il collegamento fu laborioso ma dopo alcuni, interminabili minuti lo sentirono in linea. Gli spiegò cosa era successo e quali fossero ora le condizioni di John. Gli disse che aveva perso molto sangue, che era ustionato e privo di conoscenza.
Il medico ordinò di fare al più presto e con ogni mezzo una trasfusione di sangue al ferito, ed aggiunse che se non fosse stato trasportato urgentemente in ospedale, sarebbe stato spacciato.
Una trasfusione? Ma, come fare?
Giovanni scese in infermeria, lesse il manuale di primo soccorso e frugò nella cassetta dei medicinali. Trovò quello che poteva fare al caso e si portò sul luogo dell'incidente dove trovò, per fortuna, Theodor, un marinaio greco che a terra aveva per anni fatto l'infermiere.
Per la trasfusione Antonio si offerse volontario - sapeva di avere lo stesso gruppo sanguigno di John, si fece avanti e così fu tentata una trasfusione braccio a braccio.
Che scena sublime! Chi poteva resistere all'emozione di quel momento! Tutti si prodigavano con la generosità di donare qualcosa di sé per salvare la vita di un compagno più sfortunato. Ed in quel momento poi in cui più forte era la consapevolezza del pericolo che correvano le loro vite. Rischiare la propria per soccorrere John che senza l'aiuto di tutti non ce l'avrebbe fatta. Ci sarebbe rimasto in quel maledetto tratto di mare. L'oceano sarebbe stato la sua tomba!
Il tempo ora passava in fretta ma la tempesta non accennava a placarsi. Ad un tratto tutti furono scossi dai bagliori dei riflettori e dallo sbattere delle pale di un'elica che veniva giù dal cielo. Un miracolo! Un elicottero sorvolava la nave e volteggiando si calava sempre di più fino a sfiorare la coperta.
Un megafono impartì dall'alto le istruzioni ai marinai che, impazziti dalla gioia, avevano già allestito con degli assi e del cordame una barella di fortuna, su cui avevano adagiato John.
L'elicottero fu di nuovo sopra di loro, furono calati tre robusti cavi di acciaio e venne issato a bordo il ferito. Poi tutti scomparvero nella tempesta.
I compagni lo seguirono con lo sguardo ma nel loro animo c’era una preoccupazione che li attanagliava: in quelle condizioni quale speranza potevano nutrire di rivedere un giorno l'amico ferito? Quale speranza di uscire indenni da quell'inferno che si era abbattuto sulle loro teste?
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Erano passati tanti anni da allora, ma quel ricordo era rimasto vivo nel cuore di Antonio e Giovanni, unitamente alla speranza di rivedere un giorno John, ed ora quel biglietto sul tavolo del bar Desanti era la prova che quella brutta avventura aveva avuto un felice epilogo.
Antonio e Giovanni, commossi fino al midollo si alzarono dal tavolo del bar ed istintivamente si avviarono in direzione del mare. Verso quel mare, unico, grande protagonista della loro esistenza.
di Giuseppe Ferrara
#seilorman
1 commento:
Veramente una bella storia, commovente sul finale ma soprattutto molto realistica in quanto è una situazione tipica di chi ha trascorso una vita sul mare e ad un certo punto si ritrova "a secco". Unica nota stonata nella narrazione, secondo me, è quella che ad un capitano non dovrebbe "non importargli nulla del pericolo che correva l'equipaggio e quella vecchia carretta", in quanto sicuramente l'attenzione andava al momento riportata al ferito ma il Capitano doveva salvaguardare la vita di tutti gli altri membri dell'equipaggio. Ciao, comunque ottimo lavoro.
Piero
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