Racconta che grandi
personaggi dell’economia e della finanza come lui amavano il gusto
piccante del peperoncino e ne facevano oggetto di conversazione nei momenti lasciati
liberi dai gravosi impegni delle loro attività.
Amalfi è tutta distesa sul mare.
Alle sue spalle, ma a breve distanza dalla riva, addirittura attaccati alle
case, ci sono i monti Lattari, una specie di grande muraglia di roccia che ai
tempi della Repubblica la proteggeva dalle incursioni dei turchi, dei saraceni
e dei normanni.
Sul lungomare la città è una sfilza
di botteghe, alberghi, scuole, tabaccai, boutiques. In piazza sono esposti i
pesci su lunghe bancarelle odoranti di mare, infiocchettati da alghe marine e
intorno i limoni con le foglie, un miscuglio di colori bellissimi, stravagante
tavolozza della natura.
Alle finestre, sulle
terrazze, come ghirlande hawaiane, «scette» di sessanta-settanta peperoncini con
i gambi cuciti con un filo e ben distanziati l'uno dall'altro, rossi e lucidi
da sembrare porcellane di Capodimonte.
Per diventare forti e terribili
devono seguire un cammino paziente. Sembra facile, ma non lo è. Vanno esposti
quando il sole è già alto lasciando che si nutrano di quei raggi infuocati per
poi asciugarsi lentamente e infine seccarsi. Attenzione: prima che l'ombra
cali, i peperoncini devono essere ritirati e coperti con un velo di garza. Così
per trenta giorni finché diventano secchi, raggrinziti ma con una tale forza di
fuoco infernale da far tirare fuori la lingua quando la forchetta ne imbriglia
un pezzettino nella matassa di spaghetti all'aglio olio e peperoncino. Tale è
il bruciore in bocca che nelle trattorie gli avventori si fanno vento con le
mani, trovando sollievo in grandi sorsate di vino freddo da ampi boccali pieni
di ghiaccio e di fette di limone. A sentir loro, un tormento e una delizia.
Raffaele Mattioli, la grande mente
della Banca Commerciale, uomo di vasta cultura, umanista, fedele alle amicizie,
schivo di onori, galantuomo nel senso più esteso della parola, un muro in cui
chi aveva bisogno di appoggiarsi trovava sempre sostegno, era una persona dai
gusti semplici. I peperoncini erano la sua passione. Io gli ero legato da affetto
filiale e lui mi voleva un gran bene. Sono stato il tramite di tante buone
azioni che lui faceva a patto che non si sapessero. Era un gran consumatore di
peperoncini. Ogni anno voleva che, al mio ritorno dalle vacanze amalfitane,
gliene portassi tanti da bastare per l'intera annata. Voleva quelli e non
altri, perché era lui stesso, da Milano, a curarseli come fiori di serra.
Tutte le mattine
Raffaele Mattioli mi telefonava dal suo trono della Comit. Io sapevo che era
più un vezzo che altro, un modo, anche questo di tenersi per mano. Sono certo
che ancor oggi le signorine del centralino se ne ricordano. Diceva: chiamatemi
Amalfi. Capivano al volo. 089-871099. Talvolta rispondeva mio fratello
monsignore. Mattioli non si scomponeva. Come un cardinale di curia, sfoggiava
disquisizioni teologiche, citando i padri della Chiesa, salvo poi interrompersi
dolcemente: «Be', volevo notizie dei peperoncini. C'è Gaetano?». La prima cosa
che mi chiedeva era: “A che punto sono?
Quanti altri giorni?». «Una decina». «Mi raccomando. Fa' seguire bene.
Controlla». «Stia tranquillo, c'è mia madre e le mie sorelle che ci badano».
Non ho mai capito se avesse bisogno di una distrazione del genere prima di
iniziare il lavoro. Non mi meraviglierei neanche se fosse stato un rituale
scaramantico: un modo di esorcizzare il male, sempre imprevedibile. Mattioli
poteva avere queste eccentricità di cui per primo rideva.
Poi ridiventava il
banchiere. Riceveva, sbrigava, seguiva, vedeva. Andava a presiedere il comitato
e le sue decisioni erano esemplari. La grande Comit l'ha fatta lui. Passino,
dunque, i peperoncini.
Il quantitativo
richiesto man mano aumentava. .Non tutto si poteva fare a casa. La più fidata
per un'operazione così meticolosa era Giulinella, una popolana molto bella, nera
di capelli, madre di otto figli, un fusto di donna. Essa si sentì subito
investita di una grande responsabilità al punto che ogni volta che passavo
davanti alla sua casa mi chiamava dentro per farmi constatare con che scrupolo
sbrigava il delicato incarico: un figlio stava di guardia al balcone, in modo
da seguire i movimenti del sole per l'esposizione e per il ritiro dei
peperoncini al momento giusto. Giulinella non c'è più, anche lei se n'è andata;
ma a quattro anni di distanza il figlio, per onorarne la memoria, racconta
questo episodio con orgoglio per la fiducia che alla madre era stata accordata
da un pezzo grosso di Milano.
Nei pranzi che la
moglie, signora Lucia, preparava nella sua casa di via Morone - ospiti abituali
La Malfa, Tino, Bacchelli, Titta Rosa e l'architetto Zanini - dove la politica
spesso diventava secondaria all'arte culinaria, e il pettegolezzo letterario
generava risate clamorose e aneddoti sorprendenti, di peperoncini, oltre a
quelli che la signora Lucia aveva «associato» alle pietanze, Mattioli ne
teneva sempre due o tre a portata di mano da spezzare e aggiungere perché, come
diceva lui: «Questo è fonte di salute». Fa bene alla mente, pulisce il fegato,
è il più forte disinfettante intestinale e contiene tutte le vitamine». Sembrava,
mangiando, che facesse una lezione di medicina. Ne parlava anche in banca, alla
sera, quando intorno al suo tavolo Bombieri, Cingano, Russo, Braggiotti, Brusa,
Corna - il vertice della Comit - esausti di economia, discutevano di libri e di
poeti, di edizioni Ricciardi e di Petrarca, di peperoncini e di Guicciardini,
di Benedetto Croce e di belle signore.
Tratto
da Gaetano Afeltra, Spaghetti all’acqua di mare, Avigliano editore
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