mercoledì 20 maggio 2020

La Theriaca e l'Aceto dei quattro ladri


La cronaca di questi mesi ha purtroppo dovuto registrare nel nostro Paese una  pesante emergenza epidemiologica determinata dalla mutazione del tristemente famoso Coronavirus che, diffusosi dalle regioni asiatiche del pianeta, è arrivato anche in Italia causando migliaia di decessi e mettendo a dura prova non solo il sistema sanitario ma pure quello economico e finanziario.
Il Governo nazionale è stato costretto ad adottare drastici provvedimenti restrittivi al fine di limitare al massimo le occasioni di contagio tra la popolazione, contenendo in tal modo la diffusione dell’epidemia non essendo stato disponibile un efficace vaccino che potesse neutralizzarne gli effetti.
Con la chiusura di esercizi pubblici, luoghi di aggregazione, teatri, cinema, musei ma anche stadi, parchi, ecc. la popolazione è stata costretta ad una rigida ma necessaria quarantena che non trova precedenti ed a cui ha risposto con grande ed encomiabile senso di responsabilità.
Il forzato isolamento a casa, se da un lato ha costituito un duro sacrificio per non aver potuto svolgere le consuete attività, ha fatto riscoprire il piacere della tranquillità familiare, della lettura e perché no, del buon cibo preparato nella cucina domestica. La limitazione agli spostamenti indispensabili sta apportando, inoltre, significative innovazioni nelle abitudini e nelle modalità  dello svolgimento delle attività lavorative. Messe al bando le riunioni nei luoghi fisicamente deputati ad esse, i dipendenti si attrezzano ora a lavorare da casa col telelavoro e in video conferenza, realizzando in tal modo il più grande esperimento di smart working mai veramente attuato.
Ma che succedeva nei tempi andati, quali erano i rimedi adottati dai nostri progenitori nei momenti in cui epidemie e pestilenze imperversavano?  Quali erano i rimedi approntati da alchimisti ed erboristi per arginare anche allora il diffondersi delle epidemie e mitigare le febbri ed infezioni che le pestilenze causavano.
Io ne cito solo due, quelli di cui ho avuto contezza, la Theriaca e l’Aceto dei quattro ladri, ben sapendo che altri, più numerosi ma forse meno efficaci, venivano usati nell’antichità. In una delle “giornate di primavera” organizzate dal FAI-Fondo per l’Ambiente Italiano, mi è capitato di visitare a Roma l’antica Spezieria di Santa Maria della Scala dei monaci carmelitani che si trova nei pressi del loro convento nel rione Trastevere. E’ la farmacia più antica di Roma, famosa per aver ideato l’Acqua antipestilenziale e la Theriaca. La spezieria, originariamente istituita per le necessità dei frati, ben presto era divenuta così famosa che ad essa ricorrevano anche principi, cardinali e perfino i medici curanti dei pontefici  per approvvigionarsi dei preparati farmaceutici che ritenevano realmente efficaci contro tutte le infezioni causate dalle epidemie, che spesso in quelle epoche si diffondevano.
I monaci coltivavano nell’orto le piante medicinali e preparavano nel laboratorio i rimedi con l’ausilio di alambicchi, mortai, bilance, conservati intatti fino ai nostri giorni. Tra i cimeli più singolari vi è un rarissimo erbario del monaco Basilio: “Trattato delli semplici” ed una grande vasca di alabastro per la preparazione della “Theriaca”, il cui nome deriva dal vocabolo greco “therion”, usato per indicare la vipera o gli altri animali velenosi in genere, dotato di virtù magiche e capace di risolvere ogni tipo di male. In origine il suo uso principale era quello di combattere i veleni iniettati tramite il morso di “fiere velenose” e la sua invenzione si fa risalire a Mitridate, re del Ponto, il quale ne faceva uso quotidiano per combattere la paura ossessiva di essere avvelenato.
Si deve ad Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, il perfezionamento della ricetta, costituita da un rilevante numero di erbe (alcune di esse tenute segrete) e melassa, cui aggiunse carne di vipera, certo che il suo uso ne avrebbe aumentato le virtù terapeutiche.
L’elemento più curioso,  impiegato nella preparazione della Theriaca, è senz’altro la carne di vipera che doveva essere quella dei Colli Euganei, femmina, non gravida, catturata qualche settimana dopo il letargo invernale, privata della testa, della coda e dei visceri, bollita in acqua di fonte salata ed aromatizzata con aneto, triturata, impastata con pane secco, lavorata in forme tondeggianti, della dimensione di una noce, e posta ad essiccare all’ombra.
 Non c’è da stupirsi che per la preparazione venisse utilizzata una vipera: i serpenti, infatti, sono stati da sempre centro di interesse in campo scientifico e antropologico: prova ne è che questo rettile è divenuto simbolo della medicina e della farmacia nell’iconografia in cui appare attorcigliato ad un bastone o una verga, per l’appunto il bastone di Asclepio (o Esculapio),  che secondo i miti dell’antica Grecia apprese l'arte di curare da suo padre Apollo e dal centauro Chirone.
Si racconta che la produzione della Theriaca raggiungeva livelli tali da causare veri e propri disastri ambientali dovuti alla penuria di vipere, cui si rimediava importandole dall’Egitto con navi appositamente allestite e chiamate “viperaie”. La sua preparazione raggiungeva il massimo dell’efficacia dopo una “maturazione” di almeno sei anni ed era considerata valida fino al 36° anno.
La Theriaca era il rimedio sovrano per un’infinità di malattie, che spaziavano dalle coliche addominali alle febbri maligne, dall’emicrania all’insonnia, dall’angina ai morsi delle vipere e dei cani, dall’ipoacusia alla tosse. Veniva utilizzata per frenare la pazzia e per risvegliare gli appetiti sessuali, per ridare vigore ad un corpo indebolito.
L’utilizzo più diffuso era però quello di preservare dal contagio dalla lebbra e dalla peste nera, la cui diffusione nei secoli passati costituiva un flagello per la popolazione, a volte costretta a vivere in condizioni igieniche alquanto precarie. Quando si diffuse in Europa nella metà del XIV secolo uccise circa 75 milioni  di persone, un terzo della popolazione totale.  Anche allora la pandemia partì dall’Asia,  precisamente dalla Mongolia, e si diffuse in Europa a causa degli stretti legami commerciali tra Asia, Vicino Oriente ed Europa, arrivando attraverso la via della seta nei principali porti.
Un altro antico rimedio contro il contagio da malattie infettive era costituito dall’Aceto dei Quattro Ladri, prodotto mediante la macerazione in aceto di vino depurato, di un composto di erbe in cui figuravano prevalentemente la salvia, il rosmarino, il timo e la lavanda, erbe già note per le loro proprietà antisettiche e antibiotiche.
Delle quattro erbe usate ed in genere  di tutte le aromatiche si potrebbe parlare per ore, tante sono le loro proprietà ed usi nelle cure farmacologiche e nelle funzioni magiche e religiose. Ne troviamo tracce in tutte le civiltà: i Sumeri, gli Assiro-Babilonesi, gli Egizi, i Greci, i Romani, e persino i Maya, gli Aztechi erano profondi conoscitori del mondo vegetale, dal quale attingevano conoscenze e pratiche. Il timo, in modo particolare, era usato nell’antichità durante i rituali religiosi perché si pensava che, se bruciato in un incensiere,  favoriva il rapporto tra gli uomini ed il mondo dell’aldilà.

Nell’interessante libro di Alessandra Donati, “Il potere purificante della luna calante” si narra che durante la terribile peste che colpì Tolosa nel 1630, quattro ladri, non tenendo conto del rischio di contagio, entravano nelle case degli appestati, moribondi o morti per depredare le loro ricchezze. Arrestati, furono condannati all’impiccagione. Un giudice curioso si chiese però come era stato possibile che nessuno, proprio nessuno dei quattro, fosse stato contagiato dal contatto avuto con i malcapitati. Perciò li interrogò, promettendo loro la grazia se avessero rivelato l’interessante segreto. I ladri risposero che, due volte al giorno, si bagnavano i polsi e le tempie con un macerato di varie erbe, tra cui salvia, rosmarino, timo e lavanda.
Da allora, avendone riscontrato le reali proprietà antinfettive, antibatteriche e balsamiche, il Vinaigre des quatre Voleurs (l’aceto dei quattro ladri) si cominciò a produrre a pieno regime in tutta la Francia. Ufficialmente riconosciuto dalle autorità sanitarie, il preparato fu poi certificato, inserito nella farmacopea nazionale e venduto in farmacia fino al 1850.
                       

                                                                                                     

Pubblicato anche sulla rivista l'Orizzonte
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