La cronaca di questi mesi ha purtroppo dovuto
registrare nel nostro Paese una pesante
emergenza epidemiologica determinata dalla mutazione del tristemente famoso Coronavirus
che, diffusosi dalle regioni asiatiche del pianeta, è arrivato anche in Italia
causando migliaia di decessi e mettendo a dura prova non solo il sistema
sanitario ma pure quello economico e finanziario.
Il Governo nazionale è stato costretto ad adottare
drastici provvedimenti restrittivi al fine di limitare al massimo le occasioni
di contagio tra la popolazione, contenendo in tal modo la diffusione
dell’epidemia non essendo stato disponibile un efficace vaccino che potesse neutralizzarne
gli effetti.
Con la chiusura di esercizi pubblici, luoghi di
aggregazione, teatri, cinema, musei ma anche stadi, parchi, ecc. la popolazione
è stata costretta ad una rigida ma necessaria quarantena che non trova precedenti
ed a cui ha risposto con grande ed encomiabile senso di responsabilità.
Il forzato isolamento a casa, se da un lato ha
costituito un duro sacrificio per non aver potuto svolgere le consuete
attività, ha fatto riscoprire il piacere della tranquillità familiare, della lettura
e perché no, del buon cibo preparato nella cucina domestica. La limitazione agli
spostamenti indispensabili sta apportando, inoltre, significative innovazioni
nelle abitudini e nelle modalità dello
svolgimento delle attività lavorative. Messe al bando le riunioni nei luoghi
fisicamente deputati ad esse, i dipendenti si attrezzano ora a lavorare da casa
col telelavoro e in video conferenza, realizzando in tal modo il più grande
esperimento di smart working mai veramente attuato.
Ma che succedeva nei tempi andati, quali erano i
rimedi adottati dai nostri progenitori nei momenti in cui epidemie e pestilenze
imperversavano? Quali erano i rimedi
approntati da alchimisti ed erboristi per arginare anche allora il diffondersi
delle epidemie e mitigare le febbri ed infezioni che le pestilenze causavano.
Io ne cito solo due, quelli di cui ho avuto contezza, la
Theriaca e l’Aceto dei quattro ladri, ben sapendo che altri, più numerosi ma forse
meno efficaci, venivano usati nell’antichità.
In una
delle “giornate di primavera” organizzate dal FAI-Fondo per l’Ambiente
Italiano, mi è capitato di visitare a Roma l’antica Spezieria di Santa Maria
della Scala dei monaci carmelitani che si trova nei pressi del loro convento
nel rione Trastevere. E’ la farmacia più antica di Roma, famosa per aver ideato
l’Acqua antipestilenziale e la Theriaca. La spezieria, originariamente
istituita per le necessità dei frati, ben presto era divenuta così famosa che ad
essa ricorrevano anche principi, cardinali e perfino i medici curanti dei
pontefici per approvvigionarsi dei
preparati farmaceutici che ritenevano realmente efficaci contro tutte le
infezioni causate dalle epidemie, che spesso in quelle epoche si diffondevano.
I monaci coltivavano nell’orto le piante medicinali e
preparavano nel laboratorio i rimedi con l’ausilio di alambicchi, mortai,
bilance, conservati intatti fino ai nostri giorni. Tra i cimeli più singolari
vi è un rarissimo erbario del monaco Basilio: “Trattato delli semplici” ed una grande vasca di alabastro per la preparazione
della “Theriaca”, il cui nome deriva dal vocabolo greco “therion”, usato per
indicare la vipera o gli altri animali velenosi in genere, dotato di virtù
magiche e capace di risolvere ogni tipo di male. In origine il suo uso
principale era quello di combattere i veleni iniettati tramite il morso di
“fiere velenose” e la sua invenzione si fa risalire a Mitridate, re del Ponto,
il quale ne faceva uso quotidiano per combattere la paura ossessiva di essere
avvelenato.
Si deve ad Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, il
perfezionamento della ricetta, costituita da un rilevante numero di erbe
(alcune di esse tenute segrete) e melassa, cui aggiunse carne di vipera, certo
che il suo uso ne avrebbe aumentato le virtù terapeutiche.
L’elemento più curioso, impiegato nella
preparazione della Theriaca, è senz’altro la carne di vipera che doveva essere
quella dei Colli Euganei, femmina, non gravida, catturata qualche settimana
dopo il letargo invernale, privata della testa, della coda e dei visceri,
bollita in acqua di fonte salata ed aromatizzata con aneto, triturata,
impastata con pane secco, lavorata in forme tondeggianti, della dimensione di
una noce, e posta ad essiccare all’ombra.
Non c’è da stupirsi che per la preparazione
venisse utilizzata una vipera: i serpenti, infatti, sono stati da sempre centro
di interesse in campo scientifico e antropologico: prova ne è che questo
rettile è divenuto simbolo della medicina e della farmacia nell’iconografia in
cui appare attorcigliato ad un bastone o una verga, per l’appunto il bastone di
Asclepio (o Esculapio), che secondo i miti dell’antica Grecia apprese
l'arte di curare da suo padre Apollo e dal centauro Chirone.
Si racconta che la produzione della Theriaca raggiungeva livelli tali da
causare veri e propri disastri ambientali dovuti alla penuria di vipere, cui si
rimediava importandole dall’Egitto con navi appositamente allestite e chiamate
“viperaie”. La sua preparazione raggiungeva il massimo dell’efficacia dopo una
“maturazione” di almeno sei anni ed era considerata valida fino al 36° anno.
La Theriaca era il rimedio sovrano per un’infinità di malattie, che
spaziavano dalle coliche addominali alle febbri maligne, dall’emicrania
all’insonnia, dall’angina ai morsi delle vipere e dei cani, dall’ipoacusia alla
tosse. Veniva utilizzata per frenare la pazzia e per risvegliare gli appetiti
sessuali, per ridare vigore ad un corpo indebolito.
L’utilizzo più diffuso era però quello di preservare dal contagio dalla
lebbra e dalla peste nera, la cui diffusione nei secoli passati costituiva un
flagello per la popolazione, a volte costretta a vivere in condizioni igieniche
alquanto precarie. Quando si diffuse in Europa nella metà del XIV secolo uccise
circa 75 milioni di persone, un terzo
della popolazione totale. Anche allora
la pandemia partì dall’Asia, precisamente dalla Mongolia, e si diffuse in
Europa a causa degli stretti legami commerciali tra Asia, Vicino Oriente ed Europa,
arrivando attraverso la via della seta nei principali porti.
Un altro
antico rimedio contro il contagio da malattie infettive era costituito dall’Aceto dei Quattro Ladri, prodotto
mediante la macerazione in aceto di vino depurato, di un composto di erbe in
cui figuravano prevalentemente la salvia, il rosmarino, il timo e la lavanda,
erbe già note per le loro proprietà antisettiche e antibiotiche.
Delle
quattro erbe usate ed in genere di tutte
le aromatiche si potrebbe parlare per ore, tante sono le loro proprietà ed usi nelle
cure farmacologiche e nelle funzioni magiche e religiose. Ne troviamo tracce in
tutte le civiltà: i Sumeri, gli Assiro-Babilonesi, gli Egizi, i Greci, i
Romani, e persino i Maya, gli Aztechi erano profondi conoscitori del mondo
vegetale, dal quale attingevano conoscenze e pratiche. Il timo, in modo
particolare, era usato nell’antichità durante i rituali religiosi perché si
pensava che, se bruciato in un incensiere, favoriva il rapporto tra gli uomini ed il
mondo dell’aldilà.
Nell’interessante
libro di Alessandra Donati, “Il potere purificante della luna calante” si narra
che durante la terribile peste che colpì Tolosa nel 1630, quattro ladri, non tenendo conto del rischio di
contagio, entravano nelle case degli appestati, moribondi o morti per depredare
le loro ricchezze. Arrestati, furono condannati all’impiccagione. Un giudice curioso
si chiese però come era stato possibile che nessuno, proprio nessuno dei
quattro, fosse stato contagiato dal contatto avuto con i malcapitati. Perciò li
interrogò, promettendo loro la grazia se avessero rivelato l’interessante
segreto. I ladri risposero che, due volte al giorno, si bagnavano i polsi e le
tempie con un macerato di varie erbe, tra cui salvia, rosmarino, timo e
lavanda.
Da allora,
avendone riscontrato le reali proprietà antinfettive, antibatteriche e
balsamiche, il Vinaigre des quatre
Voleurs (l’aceto dei quattro ladri) si cominciò a produrre a pieno regime in
tutta la Francia. Ufficialmente riconosciuto dalle autorità sanitarie, il
preparato fu poi certificato, inserito nella farmacopea nazionale e venduto in
farmacia fino al 1850.
Pubblicato anche sulla rivista l'Orizzonte
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